11.5 La questione romana e la terza guerra di indipendenza
Fra i molti difficili compiti che i governi della Destra storica furono chiamati ad assolvere c'era anche quello di completare l'unità, di riunire cioè alla madrepatria quei territori abitati da popolazioni italiane che erano rimasti fuori dai confini politici del Regno: il Veneto, il Trentino e soprattutto Roma e il Lazio. Sulla necessità di portare a compimento l'unificazione del paese erano d'accordo tutti, moderati e democratici. Ma, mentre i leader della Destra, preoccupati di inserire gradualmente l'Italia nel concerto delle potenze europee, si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all'idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l'occasione per un rilancio dell'iniziativa democratica.
In realtà era proprio la presenza del papa a Roma a costituire il problema più spinoso. Non erano solo in questione i rapporti con la Francia, che manteneva un suo corpo di occupazione a Roma e costituiva pur sempre per l'Italia l'alleato più sicuro e il principale partner economico. Era in questione il nodo dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica: rapporti che si presentavano particolarmente tesi, visto che Pio IX aveva considerato come un sopruso l'annessione all'Italia delle ex province pontificie avvenuta fra il '59 e il '61, era ben deciso a difendere quanto restava del suo potere temporale ed era seguito nella sua intransigenza da buona parte del clero, con in testa i gesuiti. Per capire la gravità della questione si deve riflettere sul fatto che in Italia i cattolici costituivano la stragrande maggioranza della popolazione (più del 99% secondo i censimenti ufficiali); che il clero rappresentava in molte zone rurali l'unica presenza organizzata e l'unico punto di riferimento culturale; che, infine, nella stessa scuola pubblica erano gli ecclesiastici a fornire quasi la metà del corpo insegnante. Comprensibili erano dunque le preoccupazioni degli uomini della Destra, i quali - contrariamente agli esponenti della Sinistra - erano in maggioranza cattolici per tradizioni familiari e per convinzioni personali, ma non erano per questo disposti a transigere sul principio della laicità dello Stato o sulla rivendicazione di Roma capitale, solennemente proclamata in una delle prime sedute del Parlamento.
Anche in questo caso, i primi governi dell'Italia unita cercarono di procedere sulla strada indicata da Cavour. Questi, per parte sua, non era cattolico. In perfetta coerenza con le sue idee politiche, credeva fermamente nella libertà religiosa e nella separazione fra Chiesa e Stato. In base a queste convinzioni - espresse nella celebre formula "libera Chiesa in libero Stato" - già nelle settimane precedenti la proclamazione del Regno d'Italia, aveva avviato trattative informali col Vaticano in vista di una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale, in cambio della rinuncia al potere temporale e del riconoscimento del nuovo Stato. Le proposte cavouriane si scontrarono, però, contro l'intransigenza di Pio IX, ormai in rotta definitiva non solo col movimento nazionale italiano ma coi valori stessi della civiltà liberale. Né miglior fortuna ebbe un analogo progetto di conciliazione elaborato dal successore di Cavour, il toscano Bettino Ricasoli.
Il fallimento di questi tentativi finì col ridare spazio all'iniziativa dei democratici, in particolare di Garibaldi che, dal volontario esilio di Caprera, non aveva mai fatto mistero della sua intenzione di riprendere quanto prima la lotta per la liberazione di Roma e del Veneto. Nel giugno del 1862, Garibaldi tornò in Sicilia, dove era sempre molto popolare, e rilanciò pubblicamente il progetto di una spedizione contro lo Stato pontificio, senza che le autorità facessero nulla per sconfessarlo o per impedire l'afflusso dei volontari che accorrevano da ogni parte d'Italia.
Ma il disegno, coltivato anche dal re e dall'allora primo ministro Rattazzi, di ripetere il gioco del 1860 mettendo le potenze di fronte al fatto compiuto si rivelò impraticabile. Quando Napoleone III fece capire di essere deciso a impedire con la forza un attacco contro Roma, Vittorio Emanuele II fu costretto a sconfessare con un proclama l'impresa garibaldina. Quindi, visto che Garibaldi non dava segno di desistere dai suoi progetti, decretò lo stato d'assedio in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno. Il 29 agosto 1862 duemila volontari sbarcati in Calabria sotto il comando di Garibaldi furono intercettati, sulle montagne dell'Aspromonte, da reparti dell'esercito regolare. Vi fu un breve scambio di colpi, con alcuni morti da ambo le parti. Lo stesso Garibaldi, ferito leggermente, fu arrestato e rinchiuso per poche settimane in una fortezza militare.
L'episodio di Aspromonte, che destò vivissima impressione in tutto il paese, fece fare un ulteriore passo indietro alla soluzione della questione romana. Preoccupati di ristabilire buoni rapporti con la Francia, i governanti italiani riannodarono le trattative con Napoleone III e conclusero, nel settembre del 1864, un accordo - la cosiddetta "Convenzione di settembre" - in base al quale si impegnavano a garantire il rispetto dei confini dello Stato pontificio, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo - allora presieduto da Marco Minghetti - decideva di trasferire la capitale da Torino a
Firenze.
Erano ancora vive le discussioni sulla provvisoria rinuncia alla conquista del Lazio, quando all'Italia si presentò inaspettatamente l'occasione di raggiungere l'altro obiettivo fondamentale in vista del compimento dell'unità: la liberazione del Veneto. L'occasione fu offerta, nel '66, da una proposta di alleanza militare italo-prussiana rivolta al governo italiano da Bismarck, che si apprestava allora ad affrontare la guerra con l'Impero asburgico (
9.8). La partecipazione italiana fu decisiva per l'esito del conflitto, in quanto impegnò una parte dell'esercito austriaco e rese quindi possibile la grande vittoria prussiana a Sadowa. Ma, per le forze armate nazionali chiamate alla loro prima prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso.
Gli italiani si scontrarono con forze austriache inferiori di numero sia per terra (a Custoza il 24 giugno 1866) sia per mare (il 20 luglio presso l'isola di Lissa). In entrambi i casi gli alti comandi diedero cattiva prova di sé: furono i loro errori di valutazione a trasformare in cocenti sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi, con perdite limitate da ambo le parti. Gli unici successi della campagna vennero dai Cacciatori delle Alpi, che operarono in Trentino sotto il comando di Garibaldi. Frattanto la Prussia, avendo raggiunto i suoi obiettivi, aveva avviato le trattative per l'armistizio. Dalla successiva pace di Vienna del 3 ottobre 1866 l'Italia ottenne il solo
Veneto.
L'ultima delle guerre di indipendenza si concludeva così con un bilancio quanto mai deludente. Rimanevano sotto l'Austria la Venezia Giulia e il Trentino, regioni abitate da italiani e comprese nei "confini naturali" della nazione, comunemente identificati con la cerchia alpina. Ciò avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente motivo di protesta e di agitazione patriottica. La guerra aveva poi lasciato pesanti strascichi sul piano finanziario e, cosa ancora più grave, aveva suscitato in vasti strati dell'opinione pubblica una vera e propria crisi morale: quasi che l'infelice andamento delle operazioni belliche costituisse la prova di una non ancora raggiunta coesione nazionale, di una sostanziale inadeguatezza del nuovo Stato a inserirsi fra le potenze europee su un piano di parità.
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