16.8 La democrazia autoritaria di Francesco Crispi
Quando, nell'estate del 1887, morì Agostino Depretis, parve naturale che a succedergli fosse
Francesco Crispi, che ricopriva allora la carica di ministro degli Interni ed era certo la personalità più rilevante della Sinistra parlamentare. Siciliano, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla benevola fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più autoritario ed efficiente, di chiara impronta "bismarckiana". Appoggiandosi su una larghissima maggioranza e accentrando nella sua persona per quasi quattro anni la presidenza del Consiglio e i ministeri degli Interni e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una decisa svolta all'azione di governo: accentuò le spinte autoritarie e repressive, ma si fece anche promotore di un'opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell'apparato statale che non aveva precedenti se non nei primi anni dell'unità e che certo non fu priva di aspetti positivi.
Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che allargava il diritto di voto per le elezioni amministrative - estendendolo a tutti i cittadini maschi maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o pagassero almeno cinque lire di imposte all'anno - e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di diecimila abitanti. Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale (noto come codice Zanardelli, dal nome dell'allora ministro della Giustizia) che aboliva la pena di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità. Questo riconoscimento era però temperato - e in qualche misura contraddetto - dalla nuova legge di pubblica sicurezza (varata anch'essa nell'89) che, pur essendo più avanzata della precedente, poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto, senza l'autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi poteri i governi presieduti da Crispi si valsero con molta frequenza, intervenendo duramente contro il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli irredentisti di ispirazione repubblicana: il che provocò un rapido inasprimento dei rapporti fra la maggioranza crispina e i gruppi dell'estrema sinistra democratica.
Alla riorganizzazione "efficientistica" dello Stato faceva riscontro, nei progetti di Crispi, una decisa quanto velleitaria affermazione del ruolo dell'Italia come grande potenza, anche nel settore coloniale. Per realizzare il suo programma, lo statista siciliano - che non aveva mai fatto mistero della sua ammirazione per la Germania bismarckiana - puntò fin dall'inizio sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all'interno di essa, sul consolidamento dei legami con l'Impero tedesco. Conseguenza di questa politica fu un ulteriore inasprimento dei rapporti italo-francesi, che ebbe la sua manifestazione più clamorosa nella "guerra doganale" (
16.6).
Nelle intenzioni di Crispi, il rafforzamento della Triplice doveva non solo garantire l'Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più attiva presenza nello scacchiere africano. Come tutti i colonialisti italiani, Crispi pensava soprattutto al Nord Africa come all'obiettivo più naturale di una politica di conquista, che si ammantava, nei suoi progetti, di vaghe colorazioni sociali (nuove terre da coltivare e nuove possibilità di lavoro per i contadini del Sud). Il problema immediato era però quello di riaffermare la presenza italiana in Africa orientale, risollevando il prestigio nazionale scosso dall'eccidio di Dogali. Alla fine dell'87 fu inviato a Massaua un nuovo corpo di spedizione. I possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati, nel 1890, col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una nuova iniziativa di espansione sulle coste della vicina Somalia.
La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità sempre più diffuse in seno alla stessa maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato in un momento di grave crisi economica e non assicurava nemmeno - salvo che a ristretti gruppi legati all'industria degli armamenti e delle costruzioni navali - quei vantaggi immediati che in altri paesi l'imperialismo aveva fruttato alla borghesia dell'industria, del commercio e della finanza. Messo in minoranza in una votazione alla Camera, Crispi si dimise all'inizio del 1891. Nel maggio 1892, dopo un intermezzo in cui la guida del governo fu affidata al marchese
Antonio di Rudinì, esponente di quell'ala della destra conservatrice che si era opposta alla politica coloniale e finanziaria di Crispi, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti.
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