17.12 Il nuovo nazionalismo
Nell'Europa di fine '800 la nazione, intesa come insieme di valori politici e culturali, costituiva ancora un fattore centrale, sia nei rapporti fra gli Stati, sia nelle vicende interne dei singoli paesi. Ma gli ideali nazionali venivano modificandosi profondamente (soprattutto in quei paesi che avevano già realizzato il loro processo di unificazione statale).
Fra il 1815 e il 1870 il nazionalismo era stato soprattutto il principio ispiratore di movimenti di liberazione che combattevano contro l'ordine costituito, si era collegato all'idea di sovranità popolare e si era alleato col liberalismo e con la democrazia. Le cose cambiarono già con l'unificazione tedesca, realizzata da Bismarck "col ferro e col sangue"; e più ancora con l'imperialismo coloniale, che legava la grandezza nazionale alle guerre di conquista a danno di altri popoli ritenuti inferiori. Infine, la crescita dei movimenti socialisti, che si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti, suscitò per reazione un ritorno di spiriti patriottici e guerrieri in seno alla borghesia conservatrice. La battaglia per i valori nazionali o per gli interessi del proprio paese finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo, alla difesa dell'ordine sociale esistente, quando non al sogno di restaurazione di un ordine passato. In altri termini, il nazionalismo tendeva a spostarsi a destra, si sganciava dalle sue matrici illuministiche e democratiche per riscoprire quelle romantiche e tradizionaliste, si collegava spesso alle teorie razziste allora in voga, che pretendevano di stabilire una gerarchia fra "razze superiori" e "razze inferiori" e di affermare su questa base la superiorità di un popolo, o di un gruppo di popoli, su tutti gli altri. Queste teorie, che avevano avuto il loro precursore nel francese Arthur de Gobineau (autore nel 1855 di un Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane), si fondavano su argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma in realtà si collegavano a credenze ataviche e ad antichi pregiudizi (l'istintiva diffidenza per l'estraneo e per il "diverso") e proprio per questo avevano una forte capacità di suggestione anche fra le classi meno colte. Più in generale, il successo del nuovo nazionalismo si può spiegare in buona parte con l'appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva, oltre che col ricorso a strumenti tipici della società di massa (stampa popolare, comizi, manifestazioni di piazza) e a tecniche di lotta prese a prestito dalla tradizione sovversiva.
Non sempre le tendenze nazionalistiche si coagularono in movimenti politici autonomi. In Gran Bretagna, ad esempio, il diffuso consenso popolare alla causa imperiale non assunse in genere contenuti polemici nei confronti delle istituzioni liberali, anche perché trovò ampio riscontro nell'atteggiamento della classe dirigente, da Disraeli a Joseph Chamberlain.
In Francia, invece, il nazionalismo fu soprattutto un terreno di incontro fra movimenti di diversa origine (bonapartista, cattolico-legittimista, ma anche rivoluzionario-giacobina) uniti nella polemica contro una classe dirigente repubblicano-moderata (
13.4) considerata media e corrotta e quindi incapace di tutelare gli interessi e le tradizioni del paese. In realtà il nazionalismo dei gruppi più oltranzisti (il più noto fu quello che si raccolse intorno alla rivista "Action française", fondata nel 1899, ed ebbe i suoi maggiori esponenti in scrittori come Maurice Barrès e Charles Maurras) era rivolto non tanto verso l'esterno, in funzione della politica estera, quanto contro i supposti "nemici interni": i protestanti, gli immigrati e soprattutto gli ebrei, considerati come un corpo estraneo alla nazione e identificati con gli ambienti dell'affarismo e della speculazione bancaria.
Una forte componente antiebraica, unita a una impostazione popolareggiante e a una sottile vena anticapitalistica e antiborghese, fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei paesi di lingua tedesca: nei quali l'antisemitismo (che in Francia si legava soprattutto a una tradizione cattolico-reazionaria) si appoggiava su presupposti apertamente razzisti. Fu proprio in Germania che le teorie della razza conobbero, già alla fine dell'800, le loro formulazioni più organiche e più fortunate: come quella contenuta nel libro I fondamenti del XIX secolo, uscito nel 1899, dello scrittore di origine inglese Houston Stewart Chamberlain. Chamberlain riprendeva da Gobineau il mito di una "razza ariana" depositaria delle virtù più nobili e ne vedeva l'incarnazione più pura nel popolo tedesco. Anche il nazionalismo tedesco aveva lo sguardo rivolto al passato, ma, al contrario di quello francese, non aveva un'antica tradizione statuale in cui rispecchiarsi: cercava quindi le sue basi nel mito del popolo (Volk), concepito come comunità di sangue e come legame quasi mistico con la terra d'origine. Questo mito, che aveva le sue radici nella cultura romantica ed era stato fatto rivivere, nella seconda metà dell'800, dalle opere del grande compositore Richard Wagner, fornì la base alle ideologie e ai movimenti pangermanisti, che auspicavano cioè la riunificazione in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche, comprese quelle che nel 1871 erano rimaste fuori dai confini del Reich. I movimenti pangermanisti, che facevano capo alla Lega pantedesca fondata nel 1894, non riuscirono a condizionare in modo decisivo la politica estera del Reich, ma esercitarono ugualmente una notevole influenza sulla classe dirigente del paese, fortemente impregnata di spiriti nazionalisti e militaristi.
Un movimento contrapposto al pangermanismo, ma ad esso affine per molti aspetti, fu il panslavismo, che nacque in Russia alla fine dell'800 e si diffuse anche nei paesi slavi dell'Europa orientale, fungendo da strumento della politica imperiale zarista. Anche il panslavismo si basava su ideologie tradizionaliste e largamente intrise di antisemitismo. Infatti, nell'Europa orientale - dove le comunità ebraiche erano più numerose, ma anche meno integrate nella società e nella cultura dei paesi ospitanti - l'antisemitismo aveva profonde radici popolari. Nell'Impero russo (dove vivevano alla fine dell'800 oltre cinque milioni di ebrei) era addirittura sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente tollerato, quando non incoraggiato, dalle autorità, che se ne servivano come di un classico diversivo per lasciar sfogare il malcontento delle classi subalterne. Di qui la barbara pratica del pogrom (in russo, devastazione, saccheggio), ossia di periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone degli ebrei: pratica ancora largamente diffusa all'inizio del '900 nell'Impero degli zar.
Una reazione all'antisemitismo - ma anche una manifestazione fra le più caratteristiche di quel fenomeno di risveglio nazionalistico che attraversò tutta l'Europa di fine '800 - fu la nascita del "sionismo": cioè di quel movimento, fondato nel 1896 dallo scrittore ebreo viennese Theodor Herzl, che si proponeva di restituire un'identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina (di qui il nome
sionismo, dalla collina di Sion su cui sorge l'antica Gerusalemme). Movimento complesso e atipico, ai confini fra il politico, il religioso e il sociale (non senza una componente di stampo colonialistico), il sionismo stentò all'inizio ad affermarsi, anche perché l'alta e media borghesia ebraica era prevalentemente "assimilazionista": tendeva cioè, pur senza rinnegare le sue origini, a integrarsi, ove possibile, nelle società dei paesi d'appartenenza. All'inizio del '900, tuttavia, grazie all'attività instancabile dei suoi sostenitori, il movimento riuscì a imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica e a trovare qualche autorevole appoggio nelle classi dirigenti dell'Europa occidentale.
Torna all'indice