24.8 La marcia su Roma
Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo era costretto a porsi il problema della conquista dello Stato. Solo insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro alle aspettative delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle sue file ed evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che, avendo appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata. Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo - ora inquadrato in un'unica milizia - si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato.
Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. L'inizio della mobilitazione fu fissato al 27 ottobre. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto numerose, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito regolare. Lo stesso Mussolini credeva poco nelle possibilità di un successo "militare" e pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come di un mezzo di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della corona e delle forze armate.
In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali (il ministero Facta si dimise proprio il 27 ottobre), fu l'atteggiamento del re a risultare decisivo. Vuoi perché non sicuro della lealtà dei vertici militari, vuoi perché deciso a evitare a ogni costo una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo già dimissionario. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada di Roma e al loro capo la via del potere. Forte della resa ottenuta senza colpo ferire, Mussolini non si accontentò più della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi cominciavano a entrare nella capitale senza incontrare alcuna resistenza, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo gabinetto era già pronto. Ne facevano parte, oltre a cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.
La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo. I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto simulata. I moderati si rallegrarono per il fatto che la legalità costituzionale, violata nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme. I rivoluzionari (massimalisti e comunisti) si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe. Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione. Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime.
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