25.6 Il nuovo ruolo dello Stato
In Europa e negli Stati Uniti l'intervento pubblico in economia era stato già largamente attuato per favorire i processi di industrializzazione, per temperare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare la produzione in tempo di guerra. Ma, allo scoppio della grande crisi, la cultura dominante fra gli statisti dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva rendere più scorrevole il funzionamento di una realtà economica - il mercato - dotata di autonoma capacità espansiva.
La crisi del '29 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione si rivelò al di là della capacità di recupero delle forze economiche individuali. Ovunque, con maggiore o minore ampiezza, fu quindi lo Stato ad assumersi nuovi e importanti oneri. Dall'intensificazione delle tradizionali misure di sostegno esterno alle attività produttive (ad esempio, i provvedimenti in materia doganale) si passò alla adozione di più radicali misure di controllo (dei cambi, dei prezzi, dei salari, dei livelli di produzione) e, infine, all'assunzione da parte dello Stato del ruolo di vero e proprio soggetto attivo dell'espansione economica. Ciò avvenne in forme diverse da paese a paese: in alcuni casi, come quello degli Stati Uniti, si agì soprattutto attraverso il potenziamento della domanda interna mediante l'espansione della spesa pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all'assunzione diretta da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà; altrove - per esempio in Gran Bretagna e, in forme più incisive, nei paesi scandinavi - si puntò sull'elaborazione di programmi di sviluppo che, delineando un ordine di priorità per la produzione e i consumi, si proponevano di orientare, tramite il credito o la manovra fiscale, l'attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico.
La grande trasformazione attraversata dal capitalismo nel corso degli anni '30 rimase comunque un fenomeno interno al sistema. Gli schemi di sviluppo del capitalismo liberale, fondati sull'autonoma iniziativa di soggetti individuali, furono modificati e sostituiti da nuove forme di capitalismo "diretto", che comportavano alcune limitazioni alle scelte dei privati. Ma queste limitazioni, che ebbero per contropartita l'aiuto statale per fronteggiare le difficoltà della crisi, non intaccarono il principio del profitto, che restava scopo finale e molla fondamentale dell'attività economica.
In generale i governi, a cominciare da quello americano, potenziarono l'intervento statale seguendo linee di condotta fortemente empiriche, elaborate per rispondere alle urgenze del momento. Il primo e più importante sforzo di sistemazione teorica delle trasformazioni in corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell'economista inglese
John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica.
Già negli anni '20 Keynes si era distinto per la sua critica all'osservanza dogmatica dei princìpi del liberismo. La crisi del '29 e la susseguente depressione fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economica classica, in particolare quelle secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l'equilibrio fra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione delle unità di lavoro disponibili. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di consentire da soli un'utilizzazione ottimale delle risorse. Anziché orientarlo verso soluzioni socialiste, questa constatazione lo indusse a prospettare una serie di correttivi all'instabilità capitalistica. Keynes criticò radicalmente tutte le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d'acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica e la restrizione del credito, aggravavano le difficoltà della domanda. E, soprattutto, attribuì allo Stato il compito di accrescere il volume della domanda effettiva, manovrando in senso espansivo la spesa pubblica. Condizione preliminare di questa manovra era l'abbandono del mito del bilancio in pareggio: la spesa pubblica poteva essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio (politica del deficit spending) e con l'aumento della quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste procedure sarebbero stati compensati dai benefici che le spese statali avrebbero arrecato al reddito e alla produzione.
Com'è facile rilevare, le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando - o aveva già attuato - negli Stati Uniti del New Deal. Politiche analoghe, basate essenzialmente sulla manovra della spesa pubblica, sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale.
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