20.9 Democratici cristiani e clerico-moderati
Nel corso dell'età giolittiana, anche il movimento cattolico italiano conobbe sviluppi e trasformazioni di grande importanza che, se non valsero a modificarne la posizione di formale estraneità alla vita politica, lo portarono però a esercitarvi un peso reale crescente.
Il fatto nuovo che, all'inizio del secolo, giunse a portare una ventata di rinnovamento nell'ambiente chiuso e immobilista del cattolicesimo intransigente inquadrato nell'Opera dei congressi, fu l'affermazione del movimento democratico-cristiano (
17.11). Leader del movimento era un giovane sacerdote marchigiano, Romolo Murri, che, dopo aver militato fra gli intransigenti, era poi approdato a posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti democratici (suffragio universale, decentramento amministrativo, legislazione sociale, ecc.). Nei primi anni del '900, i democratici cristiani svolsero un'intensa attività organizzativa, fondarono riviste e circoli politici, diedero vita alle prime unioni sindacali cattoliche "di classe" (basate cioè sull'adesione dei soli lavoratori).
Tollerata, ed entro certi limiti incoraggiata, da Leone XIII l'azione dei democratici cristiani fu invece duramente osteggiata dal nuovo papa Pio X. Questi, nel 1904, temendo che l'Opera dei congressi potesse finire sotto il loro controllo, non esitò a scioglierla, creando al suo posto tre organizzazioni distinte, tutte strettamente dipendenti dalla gerarchia ecclesiastica: l'Unione popolare, l'Unione economico-sociale e l'Unione elettorale, più tardi riunite da un organo di coordinamento che fu detto Direzione generale dell'Azione cattolica. Romolo Murri, che aveva rifiutato di sottostare alle direttive pontificie, fu sconfessato e più tardi sospeso dal sacerdozio (eletto in Parlamento nel 1909, avrebbe militato nel gruppo radicale).
La condanna di Murri e della democrazia cristiana non impedì peraltro al movimento sindacale cattolico di continuare a svilupparsi. Nel 1910 esistevano in Italia 375 leghe bianche, con oltre 100.000 iscritti, concentrati in buona parte in Lombardia e in Veneto e reclutati soprattutto fra gli operai tessili, che diedero vita, nel 1909, al primo sindacato nazionale cattolico di categoria. Le organizzazioni bianche riscossero un certo successo anche tra i lavoratori agricoli, in particolare fra i piccoli proprietari e i mezzadri. Nelle campagne del Cremonese un organizzatore di notevoli capacità, Guido Miglioli, riuscì a creare una rete di leghe non meno forti e combattive delle analoghe organizzazioni "rosse". Il movimento contadino cattolico si sviluppò anche in Sicilia, sotto la guida di un prete di Caltagirone, Luigi Sturzo.
Preoccupati, anche sulla scorta dei contemporanei avvenimenti francesi, dai progressi delle forze laiche e socialiste, il papa e i vescovi favorirono le tendenze clerico-moderate che si andavano manifestando nel movimento cattolico e che miravano a far fronte comune con i "partiti d'ordine" per bloccare l'avanzata delle sinistre. Alleanze di questo genere, già largamente sperimentate nelle elezioni amministrative, furono esplicitamente autorizzate dalle autorità ecclesiastiche e furono d'altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Questi, pur ispirandosi in materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica (sua è la celebre formula delle "due parallele" che non devono mai incontrarsi né interferire reciprocamente), vide nel nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze. Il non expedit fu sospeso, in alcuni collegi del Nord, già nelle elezioni del novembre 1904 e, in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del marzo 1909, dove fu autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche, anche se solo a titolo personale (secondo la formula "cattolici deputati sì, deputati cattolici no").
La linea clerico-moderata ebbe piena consacrazione con le elezioni del novembre 1913 - le prime a suffragio universale maschile - quando il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un programma che prevedeva fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali, fra cui non pochi noti anticlericali, accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un elettorato di massa. Nella prospettiva dello sviluppo di un movimento cattolico autonomo, il "patto Gentiloni" - come impropriamente fu definito quello che in realtà era il risultato di una serie di accordi locali - rappresentò una netta battuta d'arresto; e fu per questo duramente criticato dai democratici cristiani. D'altra parte, con le elezioni del '13, i cattolici italiani acquistavano una capacità di pressione sulla classe dirigente mai avuta fin allora. E la presenza di oltre duecento deputati "gentilonizzati" rischiava di incrinare seriamente la fisionomia laica del Parlamento italiano.
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