6.6 Le nuove correnti politiche: moderatismo, neoguelfismo, federalismo
Nel corso degli anni '40, in coincidenza con i fenomeni appena osservati di relativo risveglio dell'economia e della società civile, il dibattito politico italiano si allargò e si arricchì di nuove voci. La principale novità di questi anni fu l'emergere di un orientamento moderato, che si differenziava nettamente sia dal tradizionalismo conservatore e legittimista sia dal radicalismo repubblicano di Mazzini e cercava per il problema italiano soluzioni gradualistiche e indolori: tali da non comportare l'uso della violenza e lo scontro con le autorità costituite. La base principale del pensiero moderato stava nel tentativo di conciliare la causa liberale e patriottica con la religione cattolica - vista come il più importante fattore di unità della nazione italiana - e col magistero della Chiesa di Roma.
Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli anni della Restaurazione; e aveva i suoi esponenti più illustri in Alessandro Manzoni e nel filosofo trentino Antonio Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, pur nel solco dell'ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe erano quegli intellettuali toscani - Gino Capponi, Raffaello Lambruschini, Bettino Ricasoli - che si erano formati attorno all'"Antologia" di Vieusseux. La condanna papale del 1832 (
5.6), per quanto fosse rivolta soprattutto contro il gruppo francese dell'"Avenir", si ripercosse anche sul cattolicesimo liberale italiano, limitandone gli spunti più apertamente riformatori. Ma non impedì al pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie: come i romanzi, per lo più di ambiente medioevale, di Tommaso Grossi e di Cesare Cantù; o come le opere storiche del napoletano Carlo Troya e del piemontese Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e del papato nella storia nazionale e ne esaltavano il ruolo di difensori delle "libertà d'Italia". Venne così prendendo corpo una scuola di pensiero che fu poi definita neoguelfa, con un termine tratto dalla storia medioevale, e che suscitò, per reazione, l'emergere di una corrente neoghibellina, impersonata soprattutto da due scrittori toscani di orientamento repubblicano e anticlericale: Francesco Domenico Guerrazzi e Giovanbattista Niccolini.
Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior popolarità dopo il 1843, in coincidenza con l'uscita di un libro dell'abate torinese
Vincenzo Gioberti, intitolato Del Primato morale e civile degli italiani. Già teologo alla corte sabauda e cappellano di Carlo Alberto, Gioberti aveva subito l'influsso di Mazzini e, a causa delle sue simpatie per la Giovine Italia, era stato costretto a emigrare in Francia dopo i moti del '33. Nell'esilio aveva abbandonato le idee mazziniane e si era riaccostato all'ortodossia cattolica, ponendosi come problema fondamentale quello di far sì che anche in Italia - come accadeva in Belgio, in Polonia, in Irlanda e nella stessa Francia - la tradizione religiosa si sposasse col sentimento nazionale.
Riprendendo da Mazzini il concetto di una speciale missione spettante al popolo italiano, Gioberti ne capovolse il significato, identificando questa missione col magistero della Chiesa. Il primato di cui parlava nel suo libro era quello che veniva all'Italia dall'essere sede del papato e dall'averne condiviso nel corso dei secoli la missione di civiltà. Gioberti era convinto che, per tornare alla glorie passate, l'Italia avesse bisogno di ampie riforme politiche e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo scopo non fosse necessario puntare all'unità politica (obiettivo che peraltro giudicava irrealizzabile). La soluzione da lui proposta era una confederazione fra gli Stati italiani, fondata sull'autorità superiore del papa (che ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del Regno di Sardegna. Era un'ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana, anche perché puntava su un'evoluzione liberale e nazionale della Chiesa inimmaginabile sotto il pontificato di Gregorio XVI. Ma aveva il pregio di presentare all'opinione pubblica moderata un progetto che non prevedeva rivoluzioni, si accordava col sentimento cattolico pur sempre prevalente nella borghesia italiana e soddisfaceva al tempo stesso gli ideali patriottici, dato che rivendicava all'Italia un "primato morale e civile" fra le nazioni europee.
Certo è che l'opera di Gioberti aprì una fase di intenso dibattito politico e fu seguita da una serie di altre proposte che ne riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi fondamentali. Nel 1844, un anno dopo il Primato, uscì Le speranze d'Italia del piemontese Cesare Balbo, il più autorevole esponente del liberalismo moderato nel Regno sabaudo. Anche Balbo auspicava la formazione di una lega (doganale e militare) fra gli Stati italiani. Ma, realisticamente, si poneva il problema - che Gioberti aveva ignorato - della presenza dell'Impero asburgico, principale ostacolo per qualsiasi ipotesi indipendentista. Secondo Balbo, il ritiro dell'Austria dal Lombardo-Veneto - premessa essenziale per la formazione di un forte regno dell'Italia del Nord - avrebbe dovuto realizzarsi con mezzi diplomatici, assecondando la naturale tendenza dell'Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l'Europa orientale e a profittare della crisi dell'Impero ottomano per svolgere la sua funzione storica di baluardo della cristianità. Nel 1846 un altro piemontese, Giacomo Durando, in un libro intitolato Della nazionalità italiana, rilanciava il progetto monarchico-federalista, scartando decisamente l'idea di un'egemonia papale e ipotizzando la divisione dell'Italia in tre Stati, retti da regimi costituzionali: uno settentrionale, sotto i Savoia, uno meridionale sotto i Borbone e uno centrale sotto i Lorena (il papa avrebbe mantenuto la sovranità su Roma e sarebbe stato compensato con la cessione della Sardegna).
L'elemento comune ai progetti di Gioberti, Balbo e Durando era dunque l'ipotesi federalista, vista non solo come soluzione realistica e "ragionevole" per il problema italiano, ma anche come alternativa moderata al radicalismo unitario e repubblicano di Mazzini e dei democratici. Fu il fallimento dei moti del '45 nelle Legazioni pontificie a ispirare a Massimo D'Azeglio (un altro esponente del liberalismo moderato piemontese) il celebre opuscolo su Gli ultimi casi di Romagna, uscito all'inizio del '46: dove la dura critica al malgoverno pontificio si accompagnava alla denuncia delle iniziative insurrezionali, giudicate inutili, intempestive e in ultima analisi dannose alla causa nazionale. In alternativa, D'Azeglio indicava la via dell'impegno civile e delle riforme graduali, pur senza escludere, in prospettiva, una soluzione militare del problema italiano, affidata alle armi del Regno sabaudo.
La scelta in favore delle riforme graduali e la tendenza alle soluzioni federalistiche non erano patrimonio esclusivo della scuola moderata. Negli stessi anni in cui il neoguelfismo conosceva i suoi maggiori trionfi e i moderati piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo al ruolo di guida del risorgimento nazionale, una corrente federalista, democratica e repubblicana si sviluppava in Lombardia: ossia nella regione che, pur essendo soggetta direttamente a una dominazione straniera, vantava un grado di sviluppo economico e civile senz'altro superiore a quello degli Stati italiani (esclusa forse la Toscana, ma certamente compreso il Piemonte). Capofila di questa tendenza era il milanese
Carlo Cattaneo, direttore dal '39 al '45 della rivista "Il Politecnico", erede di quella tradizione di pragmatismo e di riformismo che aveva le sue radici nella cultura illuminista dei Verri e dei Beccaria ed era stata tenuta viva anche negli anni della Restaurazione, grazie soprattutto all'opera di Giandomenico Romagnosi.
Come il suo maestro Romagnosi (che era stato filosofo e scienziato, economista e giurista), Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi, orientati soprattutto verso il campo economico e sociale. E la sua stessa formazione laica e illuminista lo portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini e dei mazziniani. D'altro canto, la profonda avversione che nutriva per il dominio austriaco non gli impediva di considerare con ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-Veneto da parte di un Piemonte ancora assolutista e clericale. La via da lui indicata per la soluzione del problema italiano non si discostava nella sostanza da quella dei moderati, in quanto puntava sulle riforme politiche e sullo sviluppo economico all'interno dei singoli Stati (con particolare insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di comunicazione e dell'istruzione pubblica). Ma molto diverso era l'obiettivo finale, che consisteva in una confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti o della Svizzera, che lasciasse ampi spazi di autonomia a tutte le istanze della vita locale e fosse la premessa per la costituzione degli Stati Uniti d'Europa.
Un altro esponente del federalismo repubblicano - anche lui milanese e anche lui allievo di Romagnosi - fu Giuseppe Ferrari. Emigrato a Parigi alla fine degli anni '30, Ferrari criticò sia il moderatismo cattolico dei neoguelfi, sia il nazionalismo unitario dei mazziniani e sostenne la necessità di inserire il moto italiano nel contesto di una rivoluzione europea che avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia. Nell'esilio francese, Ferrari si venne inoltre accostando alle teorie socialiste (soprattutto a quelle proudhoniane) e fu tra i primi, dopo Buonarroti, a collegare strettamente la questione nazionale ai temi della questione sociale.
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