33.4 La guerra del Vietnam
La guerra che si combatté per oltre dieci anni - fra il '64 e il '75 - nel Vietnam rappresentò uno degli strascichi più drammatici del processo di decolonizzazione, ma anche uno dei momenti di scontro più acuto fra gli Stati Uniti, coinvolti direttamente nel conflitto, e il mondo comunista, allora diviso dallo scisma russo-cinese ma unito nel sostegno, in armi e aiuti economici, alle forze "anti-imperialiste".
Gli accordi di Ginevra del '54 (
31.2) avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord era retta dai comunisti di Ho Chi-minh (protagonisti della lotta per l'indipendenza); quella del Sud era governata dal regime semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem, appoggiato dagli americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese. Contro il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò un movimento di guerriglia (il Vietcong) guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un'Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di "consiglieri militari" che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30.000 uomini.
Sotto la presidenza Johnson, la presenza Usa in Vietnam compì un vero salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. A partire dall'estate del '64, il corpo di spedizione americano fu continuamente rinforzato, fino a contare, nel '67-'68, oltre mezzo milione di uomini. Nel febbraio '65, senza che vi fosse stata una dichiarazione di guerra, ebbe inizio una serie di violenti bombardamenti contro il territorio del Vietnam del Nord. La continua dilatazione dell'impegno militare americano (l'escalation, ossia scalata, come fu definita negli Stati Uniti) non fu però sufficiente a domare la lotta dei vietcong, che godevano di vasti appoggi fra le masse contadine; né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. Di fronte a un nemico inafferrabile, che evitava lo scontro in campo aperto ma si muoveva fra la popolazione "come un pesce nell'acqua" (secondo una celebre espressione di Mao Tse-tung), l'esercito statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici (le difficoltà di un esercito moderno, addestrato alla guerra meccanizzata, nell'affrontare una guerriglia partigiana), ma anche da un crescente disagio morale.
Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita - le cui immagini venivano quotidianamente diffuse dalla televisione e le cui vicende erano oggetto di un continuo e acceso dibattito - apparve a larghi settori dell'opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta (una "sporca guerra"), contraria alle tradizioni della democrazia americana; e i suoi costi, economici e soprattutto umani, furono sempre più sentiti come insostenibili. Vi furono imponenti manifestazioni di protesta (che spesso si intrecciavano con la mobilitazione dei neri sulla questione razziale) e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa. Anche fuori dagli Usa le ripercussioni del conflitto furono vastissime. Ai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo i successi del Vietcong apparvero come la prova del fatto che la più potente macchina militare esistente poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo. Tutta l'opinione pubblica di sinistra, soprattutto in Europa occidentale, si mobilitò in favore del diritto all'autodecisione del popolo vietnamita. E ciò contribuì ad accrescere l'isolamento della presidenza americana.
La svolta della guerra si ebbe all'inizio del '68, quando i vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva, che, pur non ottenendo risultati decisivi sul piano militare, mostrò tutta la vitalità della guerriglia proprio nel momento del massimo impegno militare americano. Nel marzo 1968 Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di quell'anno. Il successore di Johnson, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con il governo rivoluzionario provvisorio, espressione politica del Vietcong, e ridusse progressivamente l'impegno militare americano. Ma nel contempo cercò, senza molta fortuna, di potenziare l'esercito sudvietnamita e allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia - dove pure erano attivi movimenti di guerriglia comunisti -, nel tentativo di tagliare ai vietcong le vie di rifornimento. Solo nel gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio, che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi.
Dopo il ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino a che, il 30 aprile 1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo, assieme agli ultimi consiglieri e al personale dell'ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente la città. Pochi giorni prima, i guerriglieri comunisti (khmer rossi) avevano conquistato Phnom Pen, capitale della Cambogia, cacciandone il governo filoamericano del generale Lon Nol. Tre mesi dopo (agosto '75) era il Laos a cadere nella mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l'Indocina era così diventata comunista. Gli Stati Uniti, che avevano sacrificato uomini, risorse economiche e stabilità interna proprio per impedire questo esito, dovettero registrare la prima grave sconfitta di tutta la loro storia.
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