21.11 Rivoluzione o guerra democratica?
Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917 (24-25 ottobre secondo il calendario russo), un'insurrezione guidata dai bolscevichi rovesciava in Russia il governo provvisorio. Il potere fu assunto da un governo rivoluzionario presieduto da Lenin, che decise immediatamente di por fine a una guerra diventata ormai impossibile e dichiarò la sua disponibilità a una pace "senza annessioni e senza indennità", firmando subito dopo l'armistizio con gli imperi centrali. Per concludere la pace, che fu stipulata il 3 marzo 1918 nella città di Brest-Litovsk, ai confini con la Polonia, la Russia dovette però accettare tutte le durissime condizioni imposte dai tedeschi, che comportavano la perdita di circa un quarto dei territori europei dell'Impero russo. Con la pace Lenin riuscì comunque a salvare il nuovo Stato socialista e a dimostrare al mondo che la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente attuabile, sia pure a un prezzo elevatissimo.
Per rispondere alla sfida lanciata da Lenin e per scongiurare la minaccia di un'ulteriore diffusione del "disfattismo rivoluzionario", gli Stati dell'Intesa dovettero a loro volta accentuare il carattere ideologico della guerra, presentandola sempre più come una crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente americano
Woodrow Wilson. Già nell'aprile del '17, nel momento dell'entrata in guerra, Wilson aveva dichiarato solennemente che gli Stati Uniti non avrebbero combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, di difendere i diritti delle nazioni, di instaurare infine un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e sull'"accordo fra i popoli liberi".
Nel gennaio 1918, quasi in risposta all'armistizio russo-tedesco, Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un organico programma di pace in quattordici punti. Oltre a invocare l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, l'abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti, il presidente americano formulava alcune proposte concrete circa il nuovo assetto europeo che avrebbe dovuto uscire dalla guerra: piena reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei territori russi occupati dai tedeschi, restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, possibilità di "sviluppo autonomo" per i popoli soggetti all'Impero austro-ungarico e a quello turco, rettifica dei confini italiani secondo le linee indicate dalla nazionalità. Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.
Il programma esposto nei "quattordici punti" non mancava di aspetti astratti e utopistici, ma rappresentava un'autentica rivoluzione rispetto ai princìpi cardine della diplomazia prebellica. Per questo fu accolto da una parte consistente dell'opinione pubblica come una sorta di "nuovo vangelo", capace di assicurare, se attuato, una lunga era di pace e di benessere. Per la verità i governanti dell'Intesa non condividevano affatto il programma wilsoniano, o lo condividevano solo in parte, vincolati com'erano al raggiungimento dei rispettivi obiettivi di guerra. Dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, sia perché avevano troppo bisogno dell'aiuto americano, sia perché speravano che il wilsonismo costituisse un valido antidoto contro la diffusione dell'altro vangelo rivoluzionario che veniva dalla Russia bolscevica.
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