35.9 Gli Stati Uniti da Nixon a Bush
Nonostante l'emergere di nuove potenze "regionali" e nonostante il moltiplicarsi dei punti di crisi e dei conflitti locali, la scena mondiale nell'ultimo ventennio è stata più che mai dominata da Stati Uniti e Unione Sovietica: dalle loro vicende interne e dai loro equilibri reciproci dipendono in gran parte ancora oggi le sorti del mondo.
Per gli Stati Uniti gli anni '70 hanno rappresentato una fase tutt'altro che felice. Prima la crisi del dollaro nel 1971 (
34.10), poi la sconfitta politico-militare in Vietnam. Quindi una gravissima crisi interna, il cosiddetto caso Watergate, che, nel 1974, costrinse alle dimissioni il presidente Nixon, accusato da un'efficace campagna giornalistica di aver coperto i comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori (responsabili di un'operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico).
Il democratico Jimmy Carter, divenuto capo dello Stato nel '76, dopo due anni di presidenza alquanto incolore del repubblicano Gerald Ford, cercò di risollevare il prestigio del paese e di restituire fiducia ai cittadini recuperando i valori della tradizione progressista americana e sostituendo alla Realpolitik di Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger una linea di tipo "wilsoniano", fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo. Una linea che fu però portata avanti in modo incerto e velleitario e che, se da un lato contribuiva a rendere tesi i rapporti con l'Urss, dall'altro fu criticata perché lasciava spazio all'affermazione di regimi ostili agli Stati Uniti in Africa, in Medio Oriente e anche in America Latina col Nicaragua. Il senso di frustrazione diffusosi nell'opinione pubblica americana in seguito a questi episodi - culminati con la rivoluzione iraniana e la drammatica crisi degli ostaggi (
35.4) contribuì non poco alla sconfitta di Carter nelle elezioni dell'80 e alla clamorosa affermazione di
Ronald Reagan, anziano ex attore esponente dell'ala destra del Partito repubblicano.
Reagan si presentò con un programma liberista in economia e promise di adottare in politica estera una linea più dura nei confronti dell'Urss e di tutti i nemici dell'America. In questo modo riuscì a incarnare, richiamandosi alla tradizione dei pionieri, l'orgoglio nazionalista e la voglia di rivincita di larghi strati dell'opinione pubblica americana, desiderosa di riprendersi dal trauma del Vietnam. Il successo della presidenza Reagan, che è stata confermata con ampio margine nelle elezioni dell'84, è dovuto anche al buon andamento dell'economia americana che, fra l'83 e l'86, ha ripreso a marciare a pieno ritmo, grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di punta (in particolare quelli legati all'elettronica e alle produzioni di interesse militare). Anche il crack della borsa di Wall Street dell'ottobre '87 - che ha per un momento evocato il ricordo del "grande crollo" del '29 e ha seminato il panico nei mercati azionari di tutto il mondo - è stato riassorbito senza gravi conseguenze. Certo, il boom degli anni '80 non è stato privo di aspetti negativi: interi settori industriali e numerose imprese agricole sono entrati in crisi perché privati di qualsiasi sussidio governativo; le disuguaglianze sociali - e le stesse fratture fra i gruppi razziali nelle grandi metropoli - si sono complessivamente accentuate in seguito al taglio delle spese per l'assistenza pubblica. In compenso l'inflazione è stata contenuta; la disoccupazione in parte riassorbita; il dollaro è tornato a essere la moneta forte dell'economia mondiale, nonostante il permanere di un vistoso deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della spesa militare.
Il mantenimento di un alto livello di armamenti ha costituito del resto un elemento essenziale della strategia internazionale di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Usa, sia per acquisire una posizione di forza nel confronto con l'Urss, sia per far sentire la presenza americana in tutti i punti caldi del pianeta. Sotto il primo aspetto, va ricordato l'appoggio di Reagan all'iniziativa di difesa strategica (Sdi), un avveniristico quanto costoso progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale, capace di neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica (e, in prospettiva, di rendere obsoleti gli stessi ordigni nucleari): un progetto fortemente criticato sia per la sua problematica realizzabilità, sia perché rischiava di mettere in moto una nuova incontrollabile spirale di spese militari in entrambe le superpotenze. Per quanto riguarda la presenza americana nel mondo, essa si è concretizzata nel sostegno in armi e materiali ai guerriglieri afghani in lotta contro i sovietici, nei massicci aiuti militari forniti ai contras del Nicaragua, nella sfida lanciata ai regimi integralisti del Medio Oriente, la Libia di Gheddafi e l'Iran di Khomeini. Nel marzo '86, in risposta a un probabile coinvolgimento libico in una serie di attentati terroristici rivolti contro cittadini americani in Europa, l'aviazione statunitense ha bombardato il quartier generale di Gheddafi, a Tripoli. Nell'estate '87, una squadra navale è stata inviata nel Golfo Persico per proteggere le rotte petrolifere minacciate dallo scontro fra Iran e Iraq.
Nell'88 - grazie anche al successo dei suoi incontri con il leader sovietico Gorbačëv e all'avvio della "nuova distensione" - Reagan ha potuto concludere il suo secondo mandato con una popolarità pressoché intatta. E ciò ha indubbiamente favorito la vittoria, nelle elezioni dell'88, del repubblicano George Bush, già vicepresidente con Reagan. Politico più esperto del suo predecessore (anche se non altrettanto dotato di carisma personale), esponente dell'ala moderata del suo partito, Bush ha ripreso nella sostanza l'eredità reaganiana, ma con uno stile più prudente ed equilibrato (significativo in questo senso è il drastico ridimensionamento del progetto di "scudo spaziale"). Nei rapporti con l'Urss è stata confermata una linea che, mescolando le manifestazioni di fermezza con la disponibilità alla trattativa, ha consentito agli Usa di proseguire nel cammino della distensione e poi di raccogliere i frutti politici della crisi dei sistemi comunisti. D'altro canto è stato proprio il "moderato" Bush ad assumersi la responsabilità dei più vasti interventi militari mai intrapresi dagli Stati Uniti dopo la guerra del Vietnam: quello effettuato a Panama nel dicembre '89 per deporre e arrestare il dittatore locale Manuel Noriega, accusato di stretti legami con i trafficanti di droga; e quello ben più massiccio deciso nel '90-91 contro l'Iraq di Saddam Hussein (
35.12).
Nonostante i notevoli successi ottenuti in campo internazionale, la presidenza Bush ha subito un forte calo di popolarità a partire dal '91, a causa soprattutto di una congiuntura economica tutt'altro che brillante, che ha messo in evidenza i limiti e le contraddizioni dell'espansione degli anni '80 e ha fatto sorgere non pochi interrogativi sul futuro degli Stati Uniti: diventati, dopo il crollo dell'Urss, l'unica superpotenza mondiale, ma minacciati, in alcuni settori vitali della propria economia industriale, dalla vittoriosa concorrenza del Giappone.
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