13.2 La Germania bismarckiana
Il nuovo Reich tedesco nato dalla vittoria del '70 contro la Francia rappresentava certamente la maggiore concentrazione di potenza economica e militare mai apparsa sull'Europa continentale dai tempi del Primo Impero napoleonico. La Germania aveva una popolazione di quaranta milioni di abitanti (più numerosa sia di quella della Gran Bretagna sia di quella della Francia), una vasta disponibilità di materie prime, un'economia già sviluppata e in continua crescita nel settore industriale come in quello agricolo. Disponeva inoltre di un'estesa rete di comunicazioni interne, di un esercito di provata efficienza, di un sistema di istruzione altamente qualificato, che la poneva all'avanguardia del progresso scientifico.
Dal punto di vista istituzionale, il Reich tedesco era un organismo piuttosto complesso, fondato in apparenza su larghe autonomie, ma in realtà strettamente accentrato intorno al nucleo della vecchia Prussia. I venticinque Stati che componevano l'Impero avevano propri governi e propri parlamenti, i cui poteri erano però limitati al campo amministrativo. Le grandi scelte politiche erano di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere e responsabile di fronte all'imperatore, anziché - come in Gran Bretagna e in Francia - di fronte al Parlamento. Il potere legislativo era esercitato da una Camera (Reichstag) eletta a suffragio universale e da un Consiglio federale (Bundesrat) - composto da rappresentanti dei singoli Stati, nominati dai governi locali secondo una proporzione stabilita - cui spettava il compito di ratificare o meno le leggi votate dal Reichstag. La Camera elettiva aveva margini d'azione molto ridotti e scarse possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato nelle mani dell'imperatore e del cancelliere: soprattutto di quest'ultimo, finché Bismarck restò al potere.
Come già nella Prussia preunitaria, il potere del cancelliere si fondava, più che su una maggioranza parlamentare definita, su un solido blocco sociale imperniato sull'alleanza fra il mondo industriale e bancario e l'aristocrazia terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionistica attuata da Bismarck dopo il 1879, a vantaggio soprattutto dell'industria pesante e della cerealicoltura (si parlò a questo proposito di un "matrimonio fra il ferro e la segale").
La forma accentrata e autoritaria del potere e la schiacciante preponderanza degli interessi conservatori nella gestione dello Stato non impedirono, tuttavia, il manifestarsi di una vivace dialettica politica. Accadde anzi che proprio in Germania - forse in virtù dell'alto livello medio di istruzione della popolazione tedesca, forse grazie alla tradizione organizzativa delle antiche corporazioni artigiane - si svilupparono prima che altrove nuovi e forti movimenti politici di massa. Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni '60 (il Partito conservatore, espressione degli Junker, il Partito nazional-liberale, che rappresentava la borghesia industriale e commerciale, il piccolo raggruppamento degli intellettuali liberal-progressisti) si aggiunse, nel 1871, il Centro, partito di dichiarata ispirazione cattolica. Nel 1875, dall'accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava all'insegnamento di Lassalle, nacque al congresso di Gotha il Partito socialdemocratico tedesco (Spd).
Mentre la socialdemocrazia - destinata, come vedremo in seguito, a svolgere un ruolo di modello e di guida per l'intero movimento socialista europeo - traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia, il Centro poggiava su una base sociale piuttosto composita, formata per lo più da agricoltori e ceti medi urbani e reclutata quasi esclusivamente negli Stati cattolici del Sud (soprattutto in Baviera), di cui esprimeva le esigenze autonomistiche, minacciate dal "prussianesimo" accentratore. Per questo il Centro fu duramente combattuto da Bismarck, che vedeva nel clero cattolico - e nella sua stretta dipendenza dal papa - un elemento potenzialmente disgregatore della compagine dell'Impero.
La lotta di Bismarck contro i cattolici, pomposamente definita Kulturkampf (ossia "battaglia per la civiltà") ebbe la sua acme negli anni 1872-75, quando il governo del Reich emanò una serie di misure volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull'insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza l'attività del clero cattolico: i gesuiti furono espulsi dalla Germania, le nomine ecclesiastiche vennero sottoposte all'assenso dell'autorità civile, pene severe furono stabilite e applicate contro quei sacerdoti che tenessero comportamenti "atti a turbare l'ordine pubblico". La battaglia scatenata da Bismarck ebbe però l'effetto di stimolare l'orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che, sotto la guida di un leader di grandi capacità, Ludwig Windthorst, riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare (nelle elezioni del 1878 ottennero quasi cento seggi). Bismarck fu indotto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e più tardi (1887) a varare una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente.
La ritirata, che in pratica segnava il fallimento del Kulturkampf, fu imposta al cancelliere dalla necessità di stabilire una tregua col forte gruppo cattolico per meglio fronteggiare la nuova e temibile minaccia che veniva dall'ascesa della socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati falliti contro l'imperatore, il governo varò una serie di provvedimenti eccezionali specificamente rivolti contro il movimento social-democratico. Le "leggi contro le tendenze sovvertitrici" ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e dichiaravano illegali tutte le associazioni "aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell'ordinamento statale o sociale esistente", costringendo così la socialdemocrazia a una condizione di semiclandestinità.
Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio, Bismarck non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il Parlamento approvò, su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia, facendone gravare il peso in parte sugli imprenditori, in parte sullo Stato, in parte sui lavoratori stessi. In un'epoca in cui le attività previdenziali e assistenziali erano di solito affidate all'iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose, la legislazione sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Essa si collegava a una corrente di riformismo conservatore che era allora molto in auge fra gli intellettuali tedeschi, in particolare fra i professori universitari, e che per questo era definita "socialismo della cattedra": dove l'espressione "socialismo" indicava semplicemente l'attribuzione allo Stato di ampi poteri di intervento nella sfera dei rapporti economico-sociali, in opposizione alle teorie liberiste.
In realtà le leggi sociali bismarckiane si inquadravano nello stesso disegno autoritario che aveva partorito qualche anno prima le leggi eccezionali. Venendo incontro ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al tempo stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza organizzata, Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna. Si ispirava dunque al modello paternalistico della Francia bonapartista, più che a quello dell'Inghilterra liberale, dove la concessione di riforme sociali si accompagnava all'allargamento delle libertà politiche e sindacali. Questa operazione però, almeno nell'immediato, andò incontro a un insuccesso analogo a quello patito da Bismarck nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita, alla fine degli anni '80, di un forte movimento sindacale guidato da leader socialdemocratici. D'altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia, che passò dai circa 500.000 voti del 1878 a quasi un milione e mezzo (il 18% dei suffragi, con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L'affermazione socialdemocratica sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio ed ebbe non poca parte nel provocare l'allontanamento dal governo dell'onnipotente cancelliere.
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