12.8 La "restaurazione Meiji" e la nascita del Giappone moderno
La firma dei trattati ineguali del '58 suscitò in tutto il paese un'ondata di risentimento nazionalistico, che fu guidata dai grandi feudatari e da una parte dei samurai e si indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. Ad esso fu contrapposta la figura dell'imperatore, che in teoria rappresentava ancora la vera fonte del potere. I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo centrale, rafforzarono i loro eserciti privati e giunsero a prendere iniziative autonome contro la presenza straniera in Giappone. Nel gennaio del 1868 le forze congiunte dei sei maggiori feudi occuparono la città imperiale di Kyoto, dichiararono decaduto lo shogun e diedero vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all'autorità dell'imperatore, un ragazzo di quindici anni salito da poco al trono col nome di
Meiji Tenno.
Ma la cosiddetta "restaurazione Meiji" non fu solo un fenomeno di reazione tradizionalista alla penetrazione straniera, né si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell'imperatore o a rafforzare l'autorità dei daimyo. Questo era forse l'obiettivo dei grandi feudatari che si assunsero il peso militare della lotta contro i Tokugawa. Ben più ambiziosi erano invece gli scopi di quel gruppo di intellettuali, militari e funzionari, tutti provenienti dal ceto dei samurai, che assunsero i posti-chiave nel governo una volta rovesciato lo shogun. Questa élite dirigente era ben consapevole del legame esistente fra l'inferiorità politica e militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l'arretratezza delle sue strutture economico-sociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati europei più avanzati.
L'operazione fu condotta con risolutezza e rapidità eccezionali. Nel giro di pochi anni, senza violenti sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal sistema feudale allo Stato moderno che nella maggior parte dei paesi europei si era realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatici processi rivoluzionari. Nel 1871 fu proclamata l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, i diritti feudali vennero aboliti e i feudi trasformati in circoscrizioni amministrative. I feudatari vennero largamente indennizzati mentre ai samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti fu introdotto l'obbligo dell'istruzione elementare, fu unificata la moneta, fu creato un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura, fu organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria.
Procedeva intanto l'opera di modernizzazione economica: sia nell'agricoltura, dove si cercò di incoraggiare la piccola proprietà; sia, e soprattutto, nell'industria, che si sviluppò praticamente da zero, grazie al massiccio investimento di capitali statali (ricavati in parte dalla vendita delle terre sequestrate allo shogun) e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all'estero per soggiorni di studio). Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie (la prima linea fu aperta nel '71) alle comunicazioni telegrafiche, all'organizzazione bancaria. I risultati furono notevoli da tutti i punti di vista. Nell'ultimo ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto nazionale fra i più alti del mondo (quasi il 5% annuo) e, pur restando ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico.
Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria "rivoluzione dall'alto", realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle classi inferiori, non preparata, com'era avvenuto in Occidente, da un'autonoma crescita della borghesia e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica (solo nel 1889 il Giappone ebbe un suo Parlamento eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati). Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a gestirla in prima persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza per questo perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro rendite nella terra, nelle banche o nell'industria protetta, trasformandosi insomma da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di rapida modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò tanto più stupefacente in quanto si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali e religiosi.
Limitatamente ad alcuni aspetti, l'esperienza giapponese è stata accostata a quella della Germania bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle della società industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il potere dell'aristocrazia terriera e della casta militare. Ma, per quante analogie si possano istituire, l'esperienza del Giappone dopo la "restaurazione Meiji" resta un caso assolutamente unico. Non era mai accaduto che uno Stato mutasse così radicalmente i suoi tratti politici, economici e sociali senza una rivoluzione "dal basso". Né era mai accaduto che un paese passasse, in pochi decenni, da una condizione di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla fine dell'800.
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