15.10 Gli Stati Uniti potenza mondiale
Negli ultimi decenni dell'800, gli Stati Uniti conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell'Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria: sviluppo che ebbe la sua tappa più importante nel 1869, con il completamento della prima linea transcontinentale dall'Atlantico al Pacifico. Intorno al 1890, la conquista del West poteva considerarsi compiuta, la frontiera coincideva ormai con la costa del Pacifico e la nazione americana aveva raggiunto l'estensione attuale.
Vittime principali della corsa all'Ovest furono le tribù dei pellirosse, che si videro restringere progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potevano muoversi liberamente. Contro di essi il governo federale condusse, fra il '66 e il '90, una serie di campagne militari che avevano lo scopo di proteggere le vie di comunicazione e di rendere più sicura l'opera di colonizzazione dei pionieri. Gli indiani cercarono di resistere alla conquista bianca e riuscirono anche a riportare qualche isolato successo (come quello di Little Big Horn, nel 1876, quando un corpo di cavalleria comandato dal generale Custer fu sterminato dai Sioux). Ma dopo il 1890, data dell'ultima battaglia delle "guerre indiane", quella di Wounded Knee, ogni resistenza armata cessò. I pellirosse, decimati dalle guerre (il loro numero alla fine del secolo non superava i 250.000), furono confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale nella società americana. Una società che aveva tra i suoi princìpi costitutivi quello della proprietà individuale e che stava allora attraversando una fase di impetuoso sviluppo capitalistico.
La crescita più imponente si verificò nell'industria, in particolare in alcuni settori-guida come il siderurgico, il meccanico, l'elettrico e il petrolifero, dove dominavano le grandi concentrazioni (corporations) industriali e finanziarie: come la General Electric, la American Telephone Company, la Standard Oil Company, o come il gigantesco trust dell'acciaio, la United States Steel Corporation, costituitosi nel 1901. Per contrastare le tendenze monopolistiche e la conseguente lievitazione dei prezzi (già tenuti alti da una politica doganale fortemente protezionistica), fu varata nel 1890 una legge, lo Sherman Antitrust Act, che vietava gli accordi sui prezzi fra imprese operanti in uno stesso settore. La legge ebbe però un effetto opposto a quello sperato, giacché indusse le imprese a vere e proprie fusioni (e le spinse a incrementare le loro attività all'estero). Alla fine del secolo, gli Stati Uniti non solo avevano superato Inghilterra e Germania nel volume della produzione industriale (raggiungendo quindi il primato mondiale), ma erano anche diventati un paese prevalentemente esportatore di capitali e di prodotti industriali.
Progressi decisivi furono compiuti anche nell'agricoltura e nell'allevamento. Soprattutto nelle grandi praterie del Midwest proseguì e si intensificò quella autentica rivoluzione agricola che sempre più avrebbe fatto degli Stati Uniti il "granaio del mondo".
Questo sviluppo economico fu reso possibile, oltre che dall'abbondanza di risorse naturali, anche e soprattutto dall'esistenza di un mercato interno in continua espansione. La popolazione statunitense, che nel 1871 ammontava a 39 milioni di persone, passò a 62 nel 1894 e a 97 nel 1914. Per oltre un terzo, questo aumento fu dovuto all'afflusso di immigranti provenienti dall'Europa, che fornirono braccia per l'industria o contribuirono a completare la colonizzazione dei territori dell'Ovest. Tale era il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte all'immigrazione rendendo l'ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le sole eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana diventò così un immenso crogiolo (melting pot) dove andarono a fondersi culture, tradizioni, valori ed energie di tutti i paesi del vecchio continente.
Pur restando ancora un paese in larga misura agricolo (la percentuale degli addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva scese lentamente, dal 52% del 1870 al 40% circa del 1900), gli Stati Uniti conobbero, in questo periodo, una rapida crescita dei grandi centri urbani. La spinta all'urbanesimo diede alle città nordamericane l'aspetto di grandi metropoli ferventi di attività, specchio di una società che non aveva conosciuto i vincoli del passato feudale, che faceva sempre più del progresso materiale il suo obiettivo fondamentale e della competizione - spesso senza quartiere - il motore del proprio sviluppo. La crescente mobilità dei redditi e delle occupazioni, caratteristica della società americana, faceva anche risaltare i contrasti sociali, che apparivano evidenti nella stessa fisionomia delle metropoli, con i loro grandi centri della finanza e del commercio ma anche con le loro sacche di povertà, col ridisegnarsi continuo di aree di miseria e di benessere a diretto contatto le une con le altre.
Il grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di tensioni sociali. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo alimentarono il malcontento dei contadini (farmers) del Midwest, danneggiati dagli alti prezzi dei manufatti. La principale espressione politica di questa protesta fu costituita, nell'ultimo decennio del secolo, dal Partito populista, una formazione a base essenzialmente contadina che, ispirandosi a ideali democratici ed egualitari, ottenne un notevole ma effimero successo soprattutto negli Stati dell'Ovest e del Sud e giunse a sfiorare la vittoria nelle elezioni presidenziali del 1896.
Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche le organizzazioni operaie. Nel 1886 venne fondata da Samuel Gompers l'American Federation of Labor, una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa caratterizzazione politica. Altri sindacati e gruppi di ispirazione socialista e rivoluzionaria costituitisi alla fine del secolo ebbero, nel complesso, un seguito limitato. Insomma, né la maggioranza delle organizzazioni sindacali né il movimento politico dei contadini sposarono la strategia di classe dei movimenti socialisti europei o si posero come obiettivo il rovesciamento del sistema capitalistico. Ciò non servì tuttavia a rendere meno aspri i contrasti sociali. Le lotte sindacali, negli Stati Uniti di fine '800, si scontrarono con la durissima resistenza di un padronato deciso a contrastare con ogni mezzo le richieste della controparte e furono per questo costellate di violenti conflitti.
È in questo contesto generale che va considerata la nuova politica espansionistica messa in atto dagli Stati Uniti a partire dagli ultimi anni del secolo scorso. Se da un lato essa presentò tutte le caratteristiche dell'imperialismo "classico" (concentrazione monopolistica, integrazione fra capitale industriale e capitale finanziario, esportazione di merci e di capitali), da un altro ebbe caratteristiche particolari, basata com'era su forme di controllo indiretto (il cosiddetto "imperialismo informale"), più sofisticate e moderne rispetto a quelle adottate dagli Stati europei, che ripugnavano alle tradizioni di libertà e di emancipazione su cui si era costruita la nazione americana. Verso la fine del secolo si sviluppò un movimento d'opinione che ebbe il suo testo programmatico in un saggio di John Fiske intitolato significativamente Manifest Destiny (Il destino manifesto) e che sosteneva il diritto degli Stati Uniti di esportare in tutto il mondo i propri princìpi e la propria organizzazione sociale, oltre che le proprie merci, magari in nome della lotta contro il colonialismo di vecchio stampo.
Queste idee si innestarono sulla naturale spinta all'espansione prodotta dalla crescita prorompente dell'economia: una spinta che, compiutasi la colonizzazione dell'Ovest, non poteva che manifestarsi al di fuori dei confini dell'Unione. L'espansionismo statunitense si esercitò in due direzioni. La prima, verso il Pacifico, rappresentava il prolungamento ideale della appena esaurita "corsa all'Ovest". La seconda, verso l'America Latina, costituiva un aggiornamento della "dottrina Monroe". Concepita fin allora in senso puramente difensivo, questa venne ora intesa come un diritto di penetrazione economica e di tutela politica sull'intero continente.
La prima importante manifestazione della nuova politica di potenza degli Stati Uniti si ebbe con l'intervento a Cuba dove, dal 1895, era in atto una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi attuarono una dura repressione che suscitò vivaci reazioni nell'opinione pubblica americana, ma anche notevoli preoccupazioni per la sorte dei cospicui interessi che gli Stati Uniti avevano nelle piantagioni di canna da zucchero dell'isola. L'affondamento, nel febbraio 1898, di una corazzata americana nel porto dell'Avana, portò così alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia alla tutela degli Stati Uniti (che vi mantennero un contingente di truppe). La Spagna fu inoltre costretta a cedere Portorico e l'intero arcipelago delle Filippine. Gli Stati Uniti si assicurarono così, oltre al controllo dei Caraibi, anche un vasto dominio in Asia orientale. Sempre nel '98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall'annessione delle isole Hawaii, un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti avevano compiuto un salto decisivo nella loro posizione internazionale, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale.
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