11.2 La classe dirigente: Destra e Sinistra
Il 6 giugno 1861, poche settimane dopo la proclamazione dell'unità, moriva a Torino a soli cinquant'anni il conte di Cavour: la classe dirigente moderata perdeva così il suo leader naturale e il suo esponente più capace. I successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme energicamente accentratrice, decisamente liberista in campo economico, sinceramente laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa. Ma lo fecero senza la genialità e la capacità di iniziativa che erano state caratteristiche dell'azione cavouriana.
Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio di vita unitaria non era molto diverso da quello che si era venuto formando dopo il '49 nel Piemonte costituzionale. Il nucleo centrale era costituito da piemontesi (La Marmora, Sella, Lanza), cioè dalla vecchia maggioranza della Camera subalpina. Ad essa si erano uniti senza difficoltà i gruppi moderati lombardi (Jacini, Visconti-Venosta), emiliani (Farini, Minghetti) e toscani (Ricasoli, Peruzzi). Quantitativamente minore era la rappresentanza delle regioni meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo, come Scialoja e Spaventa. Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche trascorse, questi uomini formavano tuttavia un gruppo dirigente abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale (venivano per lo più da famiglie di proprietari terrieri ed erano spesso di origine aristocratica) sia sotto il profilo politico. Nei primi parlamenti dell'Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come "Destra" essa venne definita nel linguaggio politico corrente (l'aggettivo "storica" fu aggiunto più tardi, a significare la funzione decisiva e peculiare svolta da questa classe dirigente nella storia d'Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra - quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi - si era infatti autoesclusa dalle istituzioni del nuovo Stato in quanto non ne riconosceva la legittimità.
Un fenomeno analogo si verificò sull'altro versante dello schieramento politico: quello della sinistra democratica. I mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all'attività politica ufficiale. Sui banchi dell'opposizione in Parlamento sedevano, assieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese (Depretis, Valerio, Brofferio), quei patrioti mazziniani o garibaldini - da Crispi a Bertani a Benedetto Cairoli - che, in numero sempre crescente, decidevano di inserirsi nelle istituzioni monarchiche, sia pure per cambiarle. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, che era formata essenzialmente dai gruppi piccolo e medio-borghesi delle città (professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori) e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall'elettorato. Nei primi anni dopo l'unità, la Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: il suffragio universale, il decentramento amministrativo e soprattutto il completamento dell'unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell'iniziativa popolare. Col passare degli anni, la Sinistra venne allargando la sua base, fino a includere una serie di componenti eterogenee unite più che altro dall'avversione alla politica della Destra; e il suo programma venne perdendo alcuni dei connotati originari, tanto da rendere abbastanza incerti i confini tra maggioranza e opposizione.
Non bisogna dimenticare che Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un "paese legale" assai poco rappresentativo del "paese reale". La legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero compiuto i venticinque anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all'anno. Questi criteri non erano molto diversi da quelli vigenti in Gran Bretagna prima della riforma elettorale del '67. Ma diverse erano le condizioni dei due paesi: in Italia il reddito pro-capite era pari a circa un terzo di quello inglese e il tasso di analfabetismo era quasi tre volte più alto. Nelle prime elezioni dell'Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400.000, meno del 2% della popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la percentuale di coloro che non votavano pur avendone il diritto era molto elevata - fino a toccare in certe elezioni il 50% - si capirà come, nel primo ventennio di vita unitaria, grazie anche al vigente sistema del collegio uninominale (quello in cui le circoscrizioni elettorali sono di piccole dimensioni e designano ciascuna un solo rappresentante in Parlamento), bastassero poche centinaia o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. Risultava così esasperato il carattere oligarchico e personalistico della vita politica. Nell'assenza di partiti organizzati nel senso moderno del termine (quelli che allora si chiamavano partiti erano piuttosto schieramenti parlamentari, senza il supporto di organizzazioni permanenti nel paese), la lotta politica si imperniava su singole personalità più che su programmi definiti; era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria influenza e le proprie relazioni per ottenere i suffragi necessari all'elezione; ed era pesantemente condizionata dalle ingerenze del potere esecutivo, cui non era difficile favorire la riuscita dei candidati "governativi".
Questi caratteri della vita politica, comuni in una certa misura a tutti i regimi liberali ottocenteschi, in un paese appena unificato politicamente com'era l'Italia ebbero l'effetto di accentuare l'isolamento della classe dirigente. Una classe dirigente che era tuttavia convinta di rappresentare la parte migliore e più avanzata del paese e che, per molti aspetti, lo era davvero. Gli uomini della Destra storica si distinsero per onestà e per rigore, tanto da costituire, da questo punto di vista, un esempio mai più superato nella storia dell'Italia unita. Essi furono però portati a identificare le proprie sorti di gruppo politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte alla minaccia concentrica dei "neri" e dei "rossi", ossia dei clericali reazionari e dei repubblicani rivoluzionari (più tardi, degli anarchici e dei socialisti); a considerare i fermenti e le inquietudini della società come altrettante minacce al bene supremo dell'unità appena conquistata.
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