4.5 L'Inghilterra nell'età delle riforme
Fra la metà degli anni '20 e la fine degli anni '40 - dunque più o meno nel periodo in cui in Francia nasceva e si consumava l'esperienza della monarchia di luglio - la Gran Bretagna visse una stagione per molti aspetti decisiva nella sua storia di Stato liberale e di paese industriale. Furono questi gli anni in cui il sistema liberale si consolidò definitivamente e al tempo stesso si adattò, pur con molti limiti e fra vivaci contrasti, alla nuova realtà politica e sociale creata dalla rivoluzione industriale.
Un'evoluzione in senso liberale della politica britannica si era delineata già all'inizio degli anni '20, quando nelle file del partito conservatore si era affermata l'ala più aperta, che faceva capo a George Canning e a Robert Peel. Se Canning fu fino alla sua morte (avvenuta nel 1827) il principale artefice di una politica estera che tendeva a sciogliere la Gran Bretagna dai vincoli dell'equilibrio del congresso di Vienna e a farne il punto di riferimento per le forze liberali di tutto il mondo, Peel legò il suo nome ad alcune importanti riforme interne. Prima fra tutte quella del 1824, che poneva fine a una prassi di dura repressione antioperaia, riconoscendo ai lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni (pur sottoponendone l'attività a una serie di limitazioni e controlli): un'innovazione di grande portata, che rompeva col vecchio pregiudizio secondo cui le coalizioni fra i lavoratori costituivano una turbativa al funzionamento del libero mercato. Sorsero così numerose unioni di mestiere (Trade Unions), organizzate su base di classe: formate cioè dai soli operai per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro rivendicazioni economiche. La Gran Bretagna, patria della rivoluzione industriale, era così il primo paese a sperimentare la nascita del moderno sindacalismo. Un'altra riforma importante fu quella che, nel 1828-29, concesse la parità di diritti politici e civili a tutte le confessioni religiose (cattolici e protestanti dissidenti dalla Chiesa anglicana) attenuando, almeno sul piano formale, la discriminazione cui erano soggetti gli irlandesi.
Ma il nodo principale da sciogliere era quello dell'allargamento del diritto di voto, allora limitato a una ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%). La situazione, come si è visto, era comune a tutti gli Stati europei dove si tenevano elezioni. Anzi, nel Regno Unito la percentuale dei votanti era notevolmente più alta che in Francia (prima e dopo la rivoluzione del '30). Ma lo sviluppo economico e civile della Gran Bretagna faceva sì che questi limiti apparissero intollerabili a una parte cospicua dell'opinione pubblica. Un problema a sé era poi costituito dalle circoscrizioni elettorali, disegnate secondo i criteri di un secolo prima, quando il paese non era stato ancora investito dalla rivoluzione industriale e dai conseguenti fenomeni di urbanizzazione. Accadeva così che le circoscrizioni urbane (contee) fossero gravemente sacrificate nella distribuzione dei seggi a vantaggio di quelle rurali (borghi), mentre vi erano collegi rurali ormai abbandonati (i cosiddetti "borghi putridi") in cui bastavano poche decine di elettori per mandare in Parlamento un deputato: con evidente vantaggio per l'aristocrazia terriera, visto che l'eletto era quasi sempre il signore del luogo.
Il problema fu affrontato all'inizio degli anni '30 da un governo di coalizione fra whigs e tories liberali, presieduto da Lord Grey. Ad accelerare i tempi della riforma contribuirono sia l'ascesa al trono del nuovo re Guglielmo IV, meno incline al conservatorismo dei suoi predecessori, sia gli echi degli avvenimenti parigini di luglio, che valsero a far cadere le resistenze dei settori più chiusi dell'aristocrazia (ancora molto forti nella Camera dei Lords), timorosi di un possibile contagio rivoluzionario.
La legge approvata dal Parlamento nel giugno 1832 allargava il corpo elettorale di oltre il 50% (gli elettori passavano da meno di 500.000 a circa 800.000) e, cosa ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni, aumentando il numero di quelle urbane a scapito di quelle rurali. Il sistema restava censitario (il diritto di voto era riservato, nei borghi, ai proprietari e ai fittavoli, nelle contee a tutti coloro che pagavano tasse per almeno 10 sterline annue) e lasciava completamente fuori della vita politica i ceti popolari. Ma era pur sempre il più avanzato nell'Europa di allora e, aprendo l'accesso alle urne a strati abbastanza consistenti del ceto medio, consentiva alla borghesia di assumere nel Parlamento un peso più consono (pur se non ancora proporzionato) al suo ruolo sociale e alla sua forza economica.
Effetti analoghi ebbe, a livello del potere locale, la riforma municipale del 1835. La riforma, estendendo il voto amministrativo a tutti coloro che pagavano tasse di qualsiasi ammontare, assestava un ulteriore colpo ai privilegi dell'aristocrazia terriera (che fin allora aveva pressoché monopolizzato le cariche locali, soprattutto nelle zone rurali) e dava un contenuto concretamente democratico al sistema di autogoverno che tradizionalmente caratterizzava le strutture politico-amministrative del Regno Unito.
Alle riforme elettorali si accompagnarono, negli anni '30, misure legislative volte ad alleviare le condizioni delle classi più disagiate e ad allentare una tensione sociale che restava sempre molto acuta. Si trattò di leggi importanti non tanto per i loro effetti concreti, che spesso furono deludenti, quanto per il precedente che stabilivano: esse inauguravano infatti, sia pure in forme limitate, una pratica di intervento sociale dello Stato che si sarebbe affermata in tutta Europa solo alla fine dell'800. La legge sul lavoro nelle fabbriche, del 1833, fissava a dieci ore l'orario massimo di lavoro per i ragazzi sotto i diciotto anni e a otto per i bambini sotto i dodici. La legge sui poveri, del 1834, sostituiva la precedente legislazione varata alla fine del '700 - che affidava a istituzioni ed enti locali l'assistenza ai bisognosi - e centralizzava l'erogazione dei sussidi, condizionandola però al ricovero dei destinatari in apposite "case di lavoro" (qualcosa di mezzo fra ospizi e penitenziari).
Né l'allargamento del suffragio politico e amministrativo - concesso, come si è visto, con criteri di prudente gradualismo - né le contemporanee riforme sociali - ispirate ancora a una visione sostanzialmente paternalistica - valsero però a far tacere la protesta dell'opposizione democratica, che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle Trade Unions partì l'iniziativa di una grande agitazione popolare per imporre alla classe dirigente l'adozione del suffragio universale, visto come il mezzo più idoneo per far valere gli interessi dei lavoratori nella Camera e nel governo. Nel 1838 fu elaborato un documento in sei punti, la Carta del popolo, che chiedeva il suffragio universale maschile, la garanzia della segretezza del voto, una nuova riforma dei collegi elettorali, l'abolizione del requisito del censo per l'eleggibilità, la concessione di un'indennità ai deputati e il rinnovo annuale della Camera.
Il movimento cartista - così chiamato appunto dalla Carta del popolo del '38 - rimase attivo anche negli anni successivi, dando vita a una lunga serie di manifestazioni, comizi e scioperi che conobbero la fase più acuta nell'estate del '39 e provocarono non di rado incidenti con la forza pubblica. Ma non riuscì a ottenere nessuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì con l'esaurirsi (l'ultima ondata di agitazioni si verificò nella primavera del '48, mentre buona parte dell'Europa era percorsa da moti rivoluzionari): questo avvenne anche perché i leader delle Trade Unions abbandonarono progressivamente il terreno delle agitazioni politiche per concentrarsi su quello delle rivendicazioni economiche.
Tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, un'altra agitazione mobilitò le energie degli intellettuali progressisti, appoggiati questa volta dal Partito liberale: quella per la riforma doganale, e in particolare per l'abolizione del dazio sul grano. Questa rivendicazione - viva sin dagli anni '20 e sostenuta, sul piano teorico, dall'analisi di David Ricardo - da un lato chiamava in causa i bisogni delle classi popolari, poiché il dazio protettivo manteneva elevato il prezzo dei cereali a esclusivo vantaggio dei produttori e a scapito dei consumatori; dall'altro esprimeva gli interessi della borghesia industriale, desiderosa di veder rimossi tutti gli ostacoli che si opponevano all'affermazione dei suoi prodotti sui mercati stranieri. Il dazio sul grano era certamente uno di questi ostacoli, in quanto provocava per ritorsione l'imposizione, da parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe sui prodotti industriali inglesi. Non a caso il movimento per la riforma doganale ebbe il suo centro a Manchester, capitale dell'industria tessile, e il suo principale portavoce in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato liberale, leader dal 1838 della Lega contro il dazio sul grano, divenuto in questi anni il più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste. D'altro canto il liberismo economico, coniugato col liberalismo politico, esprimeva anche l'ideologia della borghesia industriale britannica, convinta - secondo gli insegnamenti di Adam Smith - della sostanziale coincidenza fra i suoi interessi e quelli della collettività, fra la libertà del mercato e il benessere del popolo.
La battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846, quando l'allora primo ministro, il conservatore Robert Peel, sotto la spinta della grave carestia che stava imperversando in Irlanda, prese la storica decisione di abolire il dazio di importazione sui cereali, provocando con ciò la spaccatura del suo partito (per la ribellione dell'ala destra, legata all'aristocrazia terriera) e la caduta del suo stesso governo. Cominciava per l'Inghilterra una lunga stagione di egemonia dei liberali, che avrebbe coinciso con un ulteriore rafforzamento della potenza economica britannica e con il trionfo del liberismo doganale in tutta Europa.
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