10.6 Il fallimento dell'alternativa repubblicana
Fin dall'inizio degli anni '50 si delinearono fra i democratici italiani nuovi orientamenti che, da diversi punti di vista, tendevano a mettere in discussione la leadership di Mazzini e a contestare la sua strategia. Vi era chi riteneva questa strategia troppo intransigente e auspicava una più ampia collaborazione con tutte le forze interessate al conseguimento dell'unità. Vi era d'altra parte chi, collocandosi già in una prospettiva socialista, criticava da sinistra l'impostazione mazziniana e la considerava poco aperta ai problemi sociali e alle esigenze delle classi subalterne.
Due libri usciti entrambi nel 1851 - La Federazione repubblicana di
Giuseppe Ferrari e La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 di
Carlo Pisacane - introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al movimento risorgimentale. Sia l'uno che l'altro sostenevano che la lotta per l'indipendenza nazionale avrebbe potuto aver successo solo se avesse saputo legare a sé le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per l'emancipazione economica e spirituale. Ma, mentre per il milanese Ferrari qualsiasi iniziativa italiana era necessariamente legata a una ripresa delle forze rivoluzionarie in Francia, il napoletano Pisacane pensava che proprio l'Italia - e soprattutto l'Italia meridionale - offrisse, per le sue caratteristiche di paese arretrato con una borghesia ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione: a provocarla sarebbe bastata l'azione di pochi e risoluti nuclei di agitatori, capaci di accendere la scintilla della rivolta fra le masse diseredate. Nate dalla riflessione teorica più che dalla conoscenza dei problemi delle masse - di cui si dava per scontata la disponibilità all'insurrezione - le dottrine di Pisacane si fondavano su presupposti assai fragili. Esse, tuttavia, non solo anticipavano di parecchi anni le formulazioni di Bakunin (e più in generale prefiguravano certe esperienze di guerriglia tipiche del nostro secolo), ma rappresentavano anche la prima importante espressione in Italia di un filone di pensiero socialista, ben distinto da quello democratico-mazziniano.
Le divergenze ideologiche non impedirono, peraltro, a Pisacane e a Mazzini di trovare un concreto terreno di collaborazione nella preparazione di un nuovo progetto insurrezionale, da attuarsi questa volta nell'Italia meridionale. Nel giugno del 1857, Pisacane si imbarcò a Genova con pochi compagni su un piroscafo di linea, se ne impadronì e con esso fece rotta verso l'isola di Ponza, sede di un penitenziario borbonico. Ingrossata da circa trecento detenuti (in buona parte comuni) liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste meridionali della Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la marcia verso l'interno. Ma a questo punto nessuna delle condizioni che, nel progetto di Pisacane, avrebbero dovuto assicurare la riuscita del piano si verificò. Fallì, per difetto di collegamenti e per incapacità dei congiurati, l'insurrezione prevista a Napoli; fallirono, perché scoperti e prevenuti dalla polizia, i moti organizzati a Genova e a Livorno; ma soprattutto mancò l'attesa adesione dei contadini. Isolata e fatta segno addirittura all'ostilità delle popolazioni locali, la colonna dei rivoltosi fu facilmente individuata e annientata dalle truppe borboniche. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero.
Il fallimento della spedizione di Sapri esasperò il dissidio già in atto fra i democratici e coincise con la nascita ufficiale di un movimento indipendentista filopiemontese. Iniziatore del movimento era stato
Daniele Manin, il capo del governo repubblicano di Venezia nel '48-'49, che fin dall'estate del '55 aveva proposto il superamento di ogni divisione relativa alla futura forma di governo dell'Italia unita e l'unione di tutte le correnti, moderate e democratiche, intorno all'unica forza in grado di raggiungere l'obiettivo: la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Alla proposta di Manin (che morì nel '57) aderirono molti autorevoli esponenti dell'emigrazione democratica in Piemonte, come Giuseppe La Farina o come il nobile lombardo Giorgio Pallavicino. Importantissima fu l'adesione di Giuseppe Garibaldi, rientrato in Italia nel '55 dopo una lunga permanenza in America.
Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società nazionale. L'associazione, che agiva apertamente in Piemonte e in forma clandestina nel resto d'Italia, dichiarava nel suo manifesto costitutivo di anteporre la causa dell'unità "ad ogni predilezione di forma politica e di interesse municipale"; di ritenere "necessaria" al raggiungimento di tale scopo l'azione popolare e "utile" il "concorso governativo piemontese"; di appoggiare quindi la monarchia sabauda fintantoché questa avesse appoggiato la causa italiana. Con la fondazione della Società nazionale, la politica cavouriana, che aveva già colto i suoi primi successi diplomatici, si trovò a disporre di una nuova importantissima carta.
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