11.4 La politica economica: i costi dell'unificazione
Parallelamente all'unificazione amministrativa e legislativa, i governi della Destra storica dovettero affrontare il problema, non meno complesso, dell'unificazione economica del paese. Si trattava, da un lato, di uniformare sistemi monetari e fiscali diversi, di rimuovere le barriere doganali fra i vecchi Stati preunitari; dall'altro, di costruire un'efficiente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie, strumento per avvicinare le varie parti d'Italia, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale, ma anche simbolo visibile di modernità e di progresso civile.
Nell'affrontare questi problemi, la classe dirigente moderata si mosse con grande decisione sulla strada già indicata e percorsa da Cavour in Piemonte. La legislazione doganale vigente nel Regno sardo - ispirata a princìpi liberisti e quindi basata su dazi di entrata molto bassi - fu subito estesa al territorio dei vecchi Stati: anche di quelli che, come il Regno delle due Sicilie, avevano vissuto fin allora in regime marcatamente protezionistico. Molto rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione: in particolare della rete ferroviaria che, nel primo decennio unitario, passò da poco più di duemila a circa seimila chilometri, collegando fra loro le principali città italiane, comprese quelle del Mezzogiorno. I risultati di questo sforzo furono notevoli da molti punti di vista. Paesi prima isolati e popolazioni abituate a produrre per il proprio consumo conobbero rapporti di scambio con altre zone più progredite; e ciò fu tramite, a sua volta, di nuovi bisogni e di nuove aspirazioni. Dall'intensificazione degli scambi trassero giovamento le produzioni agricole più specificamente rivolte all'esportazione, in particolare le colture specializzate che abbiamo visto praticate in alcune zone del Mezzogiorno. Più in generale, tutto il settore agricolo conobbe, nei primi decenni dopo l'unità, progressi abbastanza significativi in termini di incremento produttivo.
Nessun vantaggio immediato venne invece al settore industriale, che fu anzi nel complesso penalizzato dall'accresciuta concorrenza internazionale. Continuò a svilupparsi l'industria della seta, tradizionalmente esportatrice seppur poco avanzata tecnologicamente. Declinarono invece le altre produzioni tessili, in particolare quella laniera, e, cosa ancora più grave, i settori siderurgico e meccanico, ancora troppo deboli per potersi giovare dell'occasione che in altri paesi era stata offerta dallo sviluppo delle ferrovie (la cui costruzione fu invece affidata, in buona parte, a imprese straniere). Gli effetti negativi della scelta liberista furono sentiti soprattutto dai pochi nuclei industriali del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla brusca caduta dei dazi protettivi all'ombra dei quali si erano sviluppati. La penetrazione dei rapporti di mercato nelle campagne meridionali segnò inoltre la fine di molte lavorazioni artigiane che spesso servivano a integrare i bilanci delle famiglie contadine.
Questi processi - a prescindere dai loro costi sociali - rappresentavano comunque un fattore di modernizzazione dell'apparato produttivo. Ma essi non furono accompagnati da un'azione dei poteri statali capace di dare impulso ai settori più avanzati e più importanti ai fini dello sviluppo. Ad un'azione del genere si opponevano non solo le condizioni oggettive (la ristrettezza del mercato interno, le difficoltà finanziarie), ma anche le convinzioni e la cultura dell'intera classe dirigente. Salvo poche eccezioni, gli uomini politici italiani, di destra come di sinistra, erano stati educati al culto del liberismo e non concepivano altro modello di sviluppo economico all'infuori di quello basato sulle potenzialità naturali del paese. Secondo loro l'Italia, povera di materia prime e priva di una tradizione industriale, doveva puntare innanzitutto sull'agricoltura come base della crescita economica. Lo sviluppo industriale sarebbe venuto semmai più tardi, come conseguenza spontanea di questa crescita.
La scommessa liberista e "agricolturista" dei governi postunitari ebbe alcuni effetti positivi: non ultimo quello di consentire una rapida integrazione del nuovo Stato nel contesto economico europeo. Inoltre, lo sviluppo agricolo degli anni '60 e '70, legato all'abbattimento delle barriere doganali, rese possibile una sia pur limitata accumulazione di capitali. Questi capitali, in parte prelevati dallo Stato sotto forma di entrate fiscali, consentirono a loro volta la realizzazione delle cosiddette infrastrutture (strade, ferrovie) indispensabili per il successivo sviluppo industriale. Dopo un ventennio di vita unitaria, l'Italia era senza dubbio una nazione più unita, più avanzata politicamente e civilmente rispetto a quella del 1861. Ma non era un paese molto più ricco di quanto non fosse al momento dell'unificazione e, sotto il profilo dello sviluppo industriale, aveva addirittura perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti. Se in alcuni settori sviluppo vi era stato, esso comunque non era andato a beneficio della stragrande maggioranza degli italiani, il cui tenore di vita non aveva registrato mutamenti di rilievo e, in alcuni casi, era addirittura peggiorato.
Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale, dettata dalla necessità di coprire i costi dell'unificazione. La costruzione del nuovo Stato aveva infatti comportato spese ingentissime, sia nel campo delle comunicazioni sia in quelli dell'amministrazione pubblica, dell'istruzione e dell'esercito. Per far fronte a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti fiscali. La pressione tributaria all'inizio fu distribuita abbastanza equilibratamente. Essa si esercitò sia attraverso le imposte dirette, come quella sulla ricchezza mobile (ossia sui redditi) e quella fondiaria; sia attraverso la tassazione indiretta, che colpiva in primo luogo i consumi (tasse sui sali e i tabacchi, dazi locali sui generi alimentari), ma anche gli affari e i movimenti di capitale (tasse sulle ipoteche, tasse di successione, di bollo e di registro).
La situazione si aggravò dopo il '66, in conseguenza di una crisi internazionale e delle spese sostenute per la guerra contro l'Austria. Per rinsanguare le casse dello Stato, i governi succedutisi fra il '66 e il '69 ricorsero a mezzi diversi: furono accelerate le operazioni di incameramento e liquidazione dell'asse ecclesiastico; fu introdotto, nel '67, il corso forzoso, ossia la circolazione obbligatoria della carta-moneta emessa dalle banche autorizzate (ciò significava che lo Stato non era più tenuto a convertire in oro i biglietti di banca e poteva autorizzarne la stampa in maggior quantità). Infine, poiché tutto questo non era sufficiente, furono inasprite le imposte indirette già esistenti e, nell'estate del 1868, ne fu varata una nuova: quella sulla macinazione dei cereali, meglio nota come tassa sul macinato. Si trattava in pratica di una tassa sul pane, cioè sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva duramente le classi più povere (si è calcolato che essa sottraeva a un operaio il frutto di dieci giornate lavorative all'anno). Inoltre, dovendo essere pagata ai mugnai all'atto del ritiro della farina, non risparmiava nemmeno quei lavoratori agricoli che producevano da soli i cereali o li ricevevano come parte del salario. L'introduzione di questa tassa accrebbe l'impopolarità della classe dirigente e provocò, all'inizio del 1869, le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell'Italia unita. Scoppiati senza alcun coordinamento un po' in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato assunsero dimensioni preoccupanti soprattutto nelle campagne padane. La repressione fu anche in questo caso durissima, con largo impiego dell'esercito e con un bilancio di duecentocinquanta morti.
La politica di duro fiscalismo e di inflessibile rigore finanziario - politica legata soprattutto al nome di Quintino Sella, ministro delle Finanze nel gabinetto Lanza dal 1869 al 1873 - ottenne alla fine gli effetti sperati. Le condizioni del bilancio statale migliorarono rapidamente fino a raggiungere, nel 1875, l'obiettivo del pareggio. Ma intanto il fronte degli scontenti si allargava. Alla protesta dei ceti popolari, al cronico malcontento del Mezzogiorno, alla reazione dei gruppi di interesse locali colpiti in egual misura dal fiscalismo e dal centralismo amministrativo, si aggiunsero le pressioni degli industriali e dei gruppi bancari e speculativi in favore di una politica economica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla formazione della ricchezza privata. Il peso di questi interessi sarebbe stato decisivo nel provocare la caduta della Destra.
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