12.6 La Cina e le "guerre dell'oppio"
Intorno alla metà del secolo scorso, anche la Cina - che era già allora lo Stato più popoloso del mondo con quasi 400 milioni di abitanti - subì la pressione delle potenze occidentali, che in questo caso non miravano alla conquista territoriale ma a imporre la loro penetrazione commerciale, se necessario anche attraverso l'intervento armato.
Diversamente da quello indiano, lo Stato cinese si fondava su un forte potere centrale, incarnato dall'imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari (i mandarini), provenienti per lo più dalla nobiltà terriera e custodi della tradizione confuciana. Anche l'agricoltura, molto più progredita che in India e basata su un complesso sistema di irrigazione, era in qualche modo legata alla burocrazia imperiale, dal momento che era lo Stato a farsi carico della sistemazione idraulica dei terreni. L'Impero cinese era rimasto, fino all'inizio del secolo scorso, pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali; inoltre, non aveva relazioni diplomatiche con l'esterno (in omaggio all'idea che l'imperatore fosse l'unica fonte del potere in terra e che gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio). Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai la società cinese, irrigidita e chiusa in se stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al '500. Il ceto burocratico, profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l'Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.
Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni '30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell'oppio. La droga, prodotta in grande quantità nelle piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito. Ne era derivata un'acuta tensione fra il governo cinese e la Gran Bretagna, ritenuta non a torto la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, alla fine del 1839, un funzionario imperiale fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo inglese decise di intervenire militarmente. Dopo una guerra durata più di due anni, gli inglesi ebbero partita vinta su tutta la linea. Col trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong, situata su un'isola prospiciente il porto di Canton, e aprire al commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shangai.
La "prima guerra dell'oppio", mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale europea, ebbe il doppio effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva l'Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze. Nel decennio 1850-60 la Cina si trovò, così, ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna - culminata nella lunga e sanguinosissima ribellione contadina nota come rivolta dei Taiping - e un nuovo sfortunato scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata questa volta dalla Francia. Il conflitto, chiamato impropriamente "seconda guerra dell'oppio", cominciò nel '56, in seguito all'attacco a una nave inglese nel porto di Canton, e si concluse nel '60, con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.
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