16.5 La politica economica, l'agricoltura e l'Inchiesta Jacini
Fra le cause che avevano portato alla caduta della Destra c'era sicuramente il malcontento provocato dalla sua politica economica, sia fra i ceti popolari, gravati dal peso delle imposte indirette, sia fra la borghesia produttiva, desiderosa di una linea meno rigida che incoraggiasse gli investimenti e la formazione della ricchezza. I governi della Sinistra cercarono di venire incontro a queste esigenze non facilmente conciliabili. La famigerata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere poi del tutto abolita nell'84. Fu contemporaneamente aumentata la spesa pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare le richieste dei variegati gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza. Questa politica, se da un lato favorì - come vedremo meglio nel prossimo paragrafo - l'avvio di un processo di industrializzazione, dall'altro provocò, fin dall'inizio degli anni '80, la ricomparsa di un forte e crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche dovute in primo luogo all'arretratezza del settore agricolo.
Gli sviluppi registrati dall'agricoltura italiana nel ventennio 1860-80 - grazie alla caduta delle barriere doganali e allo sviluppo dei trasporti - erano stati più quantitativi che qualitativi, non avevano modificato nella sostanza i rapporti di produzione né avevano comportato grandi progressi nelle tecniche di coltivazione. Se miglioramenti vi erano stati, questi avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture "specializzate" del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino). Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall'inizio degli anni '70, in alcune zone della Bassa Padana, in particolare nel Ferrarese: dove grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano sconvolto la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti.
In tutto il resto d'Italia, però, la situazione dell'agricoltura non era molto cambiata rispetto ai primi anni dell'unità; né molto migliorate erano le condizioni dei lavoratori delle campagne, oberati da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti nella stragrande maggioranza. Questa realtà fu ampiamente documentata dalla grande Inchiesta agraria deliberata dal Parlamento nel 1877 e presieduta dal senatore lombardo Stefano Jacini. Dall'Inchiesta, che fu conclusa nel 1884, emergeva un quadro drammatico dello stato dell'agricoltura italiana. Nella relazione finale si indicavano come rimedi un'estensione delle opere di bonifica e di irrigazione, un più razionale avvicendamento delle colture e una loro maggior diversificazione: in altri termini, l'avvio di un processo di trasformazione capitalistica secondo il modello già sperimentato nelle zone più progredite. Ma ciò richiedeva abbondanza di capitali e disponibilità all'investimento da parte dei privati: tutte condizioni che allora mancavano, soprattutto nel Mezzogiorno. Tanto più che, a partire dal 1881, l'Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi agraria.
Anche in Italia la crisi si manifestò con un brusco abbassamento dei prezzi che colpì in primo luogo i cereali e poi tutto l'insieme della produzione agricola, ad eccezione delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza dei prodotti d'oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo della produzione (quella dei cereali diminuì del 25% in dieci anni), con conseguenti gravissimi disagi per tutte le categorie agricole. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per l'insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne (negli anni '81-'85 si verificarono, come si è visto, i primi grandi scioperi agrari nella Valle Padana); rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto verso l'estero. Nel decennio 1870-80, l'emigrazione dall'Italia si era mantenuta intorno a una media annua di 100-120.000 espatri. Nell'ultimo ventennio del secolo la cifra crebbe considerevolmente, fino a raggiungere una media di 300.000 partenze all'anno fra il '96 e il '900, con un forte aumento della quota di emigrazione permanente, diretta per lo più verso i paesi transoceanici. Fra il 1881 e il 1901, abbandonarono definitivamente l'Italia più di due milioni di persone.
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