16.7 La politica estera: la Triplice alleanza e l'espansione coloniale
Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: una svolta che si compì nel maggio 1882, quando il presidente del Consiglio Depretis e il ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini - abbandonando la linea di prudente equilibrio seguita dai governi precedenti e basata sul mantenimento di buone relazioni con tutte le grandi potenze e sul rapporto "preferenziale" con la Francia - stipularono con la Germania e l'Austria-Ungheria il trattato della
Triplice alleanza.
Diversi motivi concorsero a determinare e a rendere quasi inevitabile questa scelta che risultò per molti versi sgradita all'opinione pubblica italiana, in quanto rappresentava una netta rottura con la tradizione risorgimentale. Pesarono nella decisione preoccupazioni di ordine interno: l'alleanza con gli imperi conservatori del Centro Europa - voluta soprattutto dal re e dagli ambienti militari e stipulata quasi in coincidenza con la svolta trasformista e moderata di Depretis - sembrava la più adatta a conferire solidità alle istituzioni del giovane Stato. Ma il movente decisivo era di natura internazionale e stava nel desiderio, avvertito in quasi tutti i settori dello schieramento politico, di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un'epoca dominata dalla logica di potenza.
Questa situazione era apparsa in tutta la sua evidenza già durante il congresso di Berlino del 1878, in cui l'Italia era rimasta a mani vuote, senza riuscire a opporsi all'espansione austriaca nei Balcani né a ottenere dall'Impero asburgico qualche compenso territoriale in Trentino o in Venezia Giulia. Un trauma ancora più grave era stato rappresentato, nel 1881, dall'affare tunisino. L'Italia considerava la Tunisia - per la vicinanza geografica e per la presenza di una forte comunità di immigrati (soprattutto siciliani) - come il naturale sbocco di una sua eventuale azione coloniale. Ma non aveva potuto far nulla per opporsi quando a muoversi era stata la Francia, con l'aperto incoraggiamento della Germania e l'avallo dell'Inghilterra. Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio. Per uscire dall'isolamento, l'Italia non aveva dunque altra strada se non quella dell'accordo con Germania e Austria, insistentemente sollecitato da Bismarck.
La Triplice era un'alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. In concreto, l'Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza bismarckiano, ricevendone in cambio la garanzia contro un'improbabile aggressione francese (molto più plausibile era invece l'eventualità di un attacco della Francia alla Germania), ma senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica delle terre irredente (cioè il Trentino e la Venezia Giulia, "non redente" ovvero non liberate dal dominio austriaco). Un problema questo che era tenuto particolarmente vivo dalle numerose associazioni "irredentiste", nate negli ambienti della sinistra repubblicana e radicale, e che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver cercato di attentare alla vita dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe.
La situazione diplomatica dell'Italia migliorò nel 1887, quando, in occasione del rinnovo della Triplice, furono inserite nel trattato due nuove clausole. La prima stabiliva che eventuali modifiche territoriali nei Balcani sarebbero avvenute di comune accordo fra Italia e Austria e che ogni vantaggio di una delle due potenze sarebbe stato bilanciato da adeguati "compensi" per l'altra. Con la seconda clausola, la Germania si impegnava a intervenire a fianco dell'Italia in caso di un conflitto provocato da iniziative francesi in Marocco e in Tripolitania. L'Italia si garantiva così contro il ripetersi di episodi come quello tunisino e riaffermava la sua aspirazione a un ruolo di potenza mediterranea.
Questo non significava, però, che il paese fosse pronto a lanciarsi in una politica di conquiste coloniali, per la quale mancavano allora i presupposti economici e politici (abbondanza di capitali da investire, orientamento favorevole dell'opinione pubblica, tradizione imperiale da difendere o vecchi possedimenti da ampliare). Troppo recenti erano i traumi dell'unificazione e troppo grande era il divario che ancora divideva l'Italia dai paesi economicamente più avanzati e militarmente più forti. Tuttavia, contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis-Mancini, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in una zona dell'Africa orientale in cui l'espansione appariva più facile (anche per la presenza di esploratori e missionari italiani) e la concorrenza meno agguerrita, ma in cui era difficile ravvisare per l'Italia interessi economici o strategici di qualche importanza. Il punto di partenza fu costituito dall'acquisto, nel giugno 1882, della baia di Assab, sulla costa meridionale del Mar Rosso. All'acquisto fece seguito, nel 1885, l'invio di un corpo di spedizione che procedette all'occupazione di una striscia di territorio fra la baia di Assab e la città di Massaua.
La zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l'Impero etiopico, il più forte e il più vasto fra gli Stati africani. L'Etiopia - o Abissinia, come veniva comunemente chiamata in Italia - era un paese economicamente molto arretrato, con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta, dedita in prevalenza alla pastorizia, con un'organizzazione di tipo feudale, in cui l'autorità dell'imperatore (negus) era fortemente limitata rispetto a quella dei signori locali (ras), che disponevano di propri eserciti.
In un primo tempo, gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con l'Etiopia e di avviarvi una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di allargare il loro controllo territoriale verso l'interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus Giovanni IVe dei ras locali. Nel gennaio 1887, una colonna di cinquecento militari italiani, che portava rifornimenti a un presidio dell'interno, fu sorpresa dalle truppe abissine e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia dell'eccidio suscitò un'ondata di proteste in tutto il paese, in particolare fra i gruppi di estrema sinistra che si erano sempre opposti all'avventura coloniale. Solo i pochi deputati socialisti, capeggiati da Andrea Costa, insistettero però nel chiedere il ritiro immediato dell'Italia dall'Africa orientale. Prevalse negli altri gruppi l'esigenza di tutelare il prestigio nazionale; e la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per l'invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera.
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