17.14 Scienze della natura e scienze dell'uomo
L'elemento comune alle principali correnti filosofiche che si affermarono fra '800 e '900 era dunque costituito da un approccio più complesso nei confronti dei procedimenti delle "scienze esatte", non più oggetto di quella fiducia illimitata che aveva rappresentato il tratto essenziale della cultura positivistica. Gli stessi sviluppi del pensiero scientifico contribuivano, del resto, a mettere in crisi il quadro di certezze su cui quella cultura si era fondata. Si pensi alla nascita della fisica atomica, dovuta soprattutto alle scoperte degli inglesi Joseph Thomson ed Ernest Rutherford; alla formulazione, nel 1900, della teoria quantistica da parte del tedesco Max Planck; all'enunciazione, nel 1905, della "teoria della relatività" di Albert Einstein: teoria che non solo metteva in discussione i fondamenti della fisica classica, ma sconvolgeva alcuni pilastri della scienza tradizionale, come la distinzione fra materia ed energia e il carattere "assoluto" dei concetti di spazio e di tempo. L'idea di un tempo "relativo" (i cui parametri di misurazione potessero, cioè, cambiare in funzione di altre variabili come la velocità) rappresentò una sorta di filo comune, attraverso il quale la fisica einsteiniana si legò ad altre fondamentali esperienze intellettuali dell'epoca, nei campi del pensiero filosofico, della psicologia, delle lettere e delle arti.
Un altro elemento comune alle principali correnti del pensiero occidentale fra '800 e '900 fu certamente l'attenzione alle motivazioni non razionali della condotta umana. Un'attenzione che troviamo in un pensatore politico come Sorel (
17.10) e in un sociologo come Vilfredo Pareto, attento studioso degli istinti primari che costituiscono, a suo giudizio, la vera essenza del comportamento umano. In tutt'altro campo, queste problematiche trovarono un riscontro di eccezionale importanza nell'opera del medico viennese Sigmund Freud, fondatore della teoria "psicanalitica". Nelle sue opere (in particolare nell'Interpretazione dei sogni del 1900 e nei Tre saggi sulla teoria della sessualità del 1905), Freud poneva alla base dei processi psichici il concetto di una vita "inconscia" (Es), dominata da leggi diverse da quelle della vita cosciente (Io). L'esigenza di "rimuovere" (ossia di reprimere, di allontanare dalla coscienza) gli istinti primari dell'inconscio è, secondo Freud, essenziale per lo sviluppo normale dell'individuo e della stessa civiltà; ma può creare - se gli istinti non vengono "sublimati" nelle realizzazioni sociali (ossia nella sfera del Super-io) - delle turbe psichiche (nevrosi). Di qui la necessità di una tecnica terapeutica (analisi) che riporti alla luce i processi inconsci attraverso il tramite principale dell'attività onirica. Accolte all'inizio con diffidenza, le teorie freudiane avrebbero non solo rivoluzionato la terapia delle malattie mentali, ma anche influenzato profondamente, soprattutto nella seconda metà del '900, la cultura e la mentalità delle società occidentali.
Un ulteriore tratto distintivo della cultura europea negli anni a cavallo fra i due secoli fu la riflessione sulla relatività e sulla soggettività della conoscenza: più esattamente, il problema dell'influenza delle inclinazioni personali, dei "valori" dell'osservatore sul modo di studiare e di rappresentare il fenomeno osservato. Un problema che interessò i filosofi, ma anche i cultori delle cosiddette "scienze umane" (sociologia, psicologia, scienza politica, antropologia, ecc.) e che trovò le sue formulazioni più lucide nell'opera del tedesco Max Weber. Sociologo, filosofo e storico, Weber approfondì soprattutto i problemi relativi al metodo delle scienze sociali: scienze che muovono inevitabilmente da un punto di partenza soggettivo (quello costituito dagli interessi personali e dalla situazione culturale dello studioso), ma possono ugualmente dare risultati scientificamente validi, purché adottino procedimenti logici e criteri esplicativi corretti.
I nuovi orientamenti della filosofia e delle scienze umane influenzarono profondamente, sia pur in modo tutt'altro che univoco, anche il pensiero politico. I "massimi sistemi" ereditati dalla cultura sette-ottocentesca (il liberalismo, la democrazia, lo stesso socialismo) furono guardati spesso con diffidenza o sottoposti a revisione critica. E comune a buona parte della cultura politica dell'epoca fu la tendenza a penetrare oltre la facciata delle formule ideologiche per ricostruire i meccanismi reali e svelare i moventi autentici dell'agire politico.
Si spiega così la notevole fortuna incontrata dalla teoria della classe politica, formulata per la prima volta alla fine del secolo scorso dall'italiano Gaetano Mosca. In netto contrasto con la dottrina democratica della sovranità popolare, Mosca sosteneva che, in qualsiasi ordinamento, il potere effettivo è destinato a restare comunque nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione (la "classe politica", appunto, o "classe dirigente"). Questa teoria fu ripresa, all'inizio del '900, da Pareto, che vedeva nella politica soprattutto uno scontro di élite (ossia minoranze qualificate, oligarchie); e prevedeva la rapida decadenza della borghesia liberale, sostituita da nuove élite più giovani e più aggressive.
A questo stesso filone di pensiero si collegava il sociologo tedesco Robert Michels che, nella sua opera più nota (la Sociologia del partito politico del 1910), stabiliva un nesso inscindibile fra la tendenza all'organizzazione, tipica dei grandi partiti di massa, e la creazione di oligarchie burocratiche praticamente inamovibili. Su un piano più generale, i fenomeni della burocratizzazione furono studiati, negli anni intorno alla prima guerra mondiale, da Max Weber. Secondo Weber, la tendenza alla crescita degli apparati burocratici era inarrestabile, in quanto espressione della fase più evoluta dello sviluppo della società (quella basata sul potere "razionale"); ma conteneva in sé gravi pericoli per il destino delle libertà individuali.
È facile notare come queste analisi, maturate in contesti politici diversi, avessero in comune un accentuato pessimismo sulla sorte degli ordinamenti democratici. Certo è che, indipendentemente dalle personali convinzioni dei loro autori, esse contribuirono a determinare quel clima di sfiducia e di scetticismo verso la democrazia e le sue istituzioni che si diffuse negli ambienti intellettuali europei proprio nel periodo in cui la partecipazione alla vita politica si allargava incessantemente e si muovevano i primi passi verso la società di massa.
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