19.5 L'America Latina e la rivoluzione messicana
Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale, i paesi dell'America Latina conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull'esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l'Europa industrializzata. Questo sviluppo attirò un consistente flusso migratorio dall'Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani (come Buenos Aires, Rio de Janeiro, Città del Messico); ma non mutò la posizione di sostanziale subalternità economica comune, in varia misura, a tutti i paesi del continente, dipendenti dagli investimenti stranieri (soprattutto britannici, ma anche tedeschi e statunitensi) per lo sviluppo delle proprie risorse produttive e legati all'andamento dei mercati esteri per la collocazione delle proprie merci. Anzi, la crescita delle esportazioni accentuò questi caratteri di dipendenza, favorendo la tendenza delle agricolture dei singoli paesi ad adottare il sistema della monocoltura: ossia a concentrarsi su una determinata produzione (il caffè in Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba), scelta in base alla richiesta del mercato internazionale.
L'orientamento dell'agricoltura in funzione del mercato non era di per sé segno di modernità nelle tecniche produttive o nei rapporti sociali: al contrario, si accompagnava alla persistenza del latifondo e al mantenimento in condizioni semiservili delle masse contadine da parte di un ristretto numero di grandi proprietari. Assente quasi ovunque l'industria manifatturiera, controllato in gran parte da compagnie straniere il settore estrattivo (molto importante vista la ricchezza di risorse minerarie del continente), l'oligarchia terriera finiva con l'essere arbitra incontrastata della vita sociale e col dominare i meccanismi della lotta politica.
Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani (l'ultima monarchia del Sud America, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato militare nel 1889), ispirati, almeno esteriormente, ai modelli del liberalismo ottocentesco. La facciata istituzionale liberal-parlamentare copriva però una realtà di profonda corruzione e di totale esclusione delle masse dalla vita politica, quando non degenerava in forme più o meno larvate di dittatura personale.
Nel periodo a cavallo fra i due secoli, questi regimi assicurarono tuttavia al continente latino-americano una stagione di relativa stabilità politica (o che almeno appare tale se la si paragona all'età delle guerre civili che avevano seguito la conquista dell'indipendenza e alle vicende non meno agitate del periodo successivo al primo conflitto mondiale). Negli anni immediatamente precedenti la grande guerra, questa calma relativa fu interrotta da due importanti rivolgimenti politici che ebbero per teatro due fra gli Stati più vasti e popolosi: l'Argentina e il Messico. Nel caso dell'Argentina, si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall'introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al potere dell'Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista. In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del nostro secolo.
La rivolta contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio Diaz - un generale già collaboratore di Juàrez nella lotta per l'indipendenza, che governava dal 1876 appoggiandosi soprattutto sull'oligarchia terriera - cominciò nel 1910 per iniziativa di gruppi liberal-progressisti guidati da Francisco Madero e fu subito accompagnata da un vasto moto contadino, organizzato da improvvisati e popolarissimi capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nell'autunno del 1911, Diaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero veniva eletto presidente.
A questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata, che mirava soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria: un obiettivo fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui la proprietà della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di latifondisti e dove i tre quarti circa della popolazione erano costituiti da braccianti senza terra (peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi.
Nel 1913 il presidente Madero fu eliminato da un colpo di Stato militare che portò al potere il generale Adolfo Huerta e aprì la strada a un regime di spietata reazione. La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e si protrasse, in un susseguirsi di rivolte e colpi di Stato, fino all'inizio degli anni '20, per concludersi infine con l'assunzione della presidenza (1921) da parte del progressista Alvaro Obregón e con il varo di una costituzione democratica e laica, aperta alle istanze di riforma sociale. L'attuazione di queste istanze si sarebbe rivelata lenta e difficile. Dieci anni di rivoluzione (con oltre un milione di morti) non erano bastati a risolvere i problemi originati dal preesistente assetto semifeudale della proprietà terriera. Avevano però assicurato al Messico un livello di democrazia superiore a quello della maggior parte degli altri Stati latino-americani.
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