21.3 L'Italia dalla neutralità all'intervento
L'Italia entrò nel conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell'Intesa contro l'Impero austro-ungarico fin allora suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali.
Il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio Salandra aveva dichiarato la neutralità dell'Italia. Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice alleanza (l'Austria non era stata attaccata, né aveva consultato l'Italia prima di intraprendere l'azione contro la Serbia), aveva trovato concordi in un primo tempo tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l'ipotesi di un intervento a fianco degli imperi centrali - ipotesi che cozzava fra l'altro contro i sentimenti antiaustriaci di buona parte dell'opinione pubblica - cominciò a essere affacciata da alcuni settori politici l'eventualità opposta: quella di una guerra contro l'Austria, che avrebbe consentito all'Italia di portare a compimento il processo risorgimentale (riunendo alla patria Trento e Trieste), ma anche di aiutare la causa delle "nazionalità oppresse" e della stessa democrazia, che si pensava sarebbe stata minacciata da una vittoria dei due imperi autoritari del Centro Europa.
Portavoce di questa linea interventista furono innanzitutto gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani, custodi della tradizione garibaldina; i radicali e i socialriformisti di Bissolati, fortemente legati alla Francia; e naturalmente le associazioni irredentiste, che avevano tra le loro file numerosi fuorusciti dall'Impero austro-ungarico (fra questi Cesare Battisti, già leader dei socialisti trentini). Ad essi si aggiunsero esponenti delle frange estremiste ed "eretiche" del movimento operaio (fra i quali i leader del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris e Filippo Corridoni), sorprendentemente convertitisi alla causa della "guerra rivoluzionaria": una guerra destinata, nelle loro speranze, a rovesciare non solo gli assetti internazionali ma anche gli equilibri sociali all'interno dei paesi coinvolti.
Sull'opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi dell'intervento erano i nazionalisti, favorevoli comunque all'entrata in guerra (si erano infatti schierati in un primo momento per gli imperi centrali, salvo poi passare rapidamente al fronte antiaustriaco) affinché l'Italia potesse affermare la sua vocazione di grande potenza imperialista; una logica molto lontana da quella dei democratici, che non impedì comunque ai nazionalisti di costituire, assieme a repubblicani, irredentisti e sindacalisti rivoluzionari, l'ala marciante del fronte interventista.
Più prudente e graduale fu l'adesione alla causa dell'intervento da parte di quei gruppi liberal-conservatori che avevano la loro espressione più autorevole nel "Corriere della Sera" di Luigi Albertini e i loro punti di riferimento politici nel presidente del Consiglio Antonio Salandra e in Sidney Sonnino, ministro degli Esteri dall'ottobre 1914. Salandra e Sonnino temevano soprattutto che una mancata partecipazione al conflitto in cui si decidevano le sorti dell'Europa avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell'Italia e il prestigio stesso della monarchia; una guerra vittoriosa avrebbe invece rafforzato le istituzioni e dato maggiore solidità al governo.
L'ala più consistente dello schieramento liberale, quella che faceva capo a Giovanni Giolitti, era però schierata su una linea neutralista. Giolitti infatti, pur non essendo pregiudizialmente contrario a un intervento nel conflitto, intuiva che la guerra sarebbe stata lunga e logorante e non riteneva il paese preparato ad affrontarla; era inoltre convinto che l'Italia avrebbe potuto ottenere dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.
Decisamente ostile all'intervento era, con poche eccezioni, il mondo cattolico italiano. Il nuovo papa
Benedetto XV, salito al soglio pontificio proprio nel momento in cui stava iniziando il conflitto, assunse un atteggiamento decisamente pacifista: atteggiamento che da un lato interpretava i sentimenti prevalenti fra le masse cattoliche, dall'altro rispecchiava la preoccupazione per una guerra che vedesse l'Italia schierata a fianco della Francia repubblicana e anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria.
Molto netta fu infine la posizione assunta dal Psi e dalla Cgl: una posizione di ferma condanna della guerra, che contrastava apertamente con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei, ma rispecchiava l'istintivo pacifismo delle masse operaie e contadine. L'unica defezione importante fu quella, clamorosa, del direttore dell'"Avanti!" Benito Mussolini: il quale, dopo aver condotto dalle colonne del suo giornale una vigorosa campagna per la "neutralità assoluta", si schierò con un'improvvisa conversione a favore dell'intervento. Destituito dal suo incarico e poi espulso dal partito, Mussolini fondò, nel novembre 1914, un nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia", che divenne la principale tribuna dell'interventismo di sinistra.
In termini di forza parlamentare e di peso nella società i neutralisti erano dunque in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi in alleanza politica. Il fronte interventista era altrettanto composito. Era però unito da un obiettivo preciso, la guerra contro l'Austria, oltre che dalla comune avversione per la "dittatura" giolittiana: per molti intellettuali e politici, infatti, la guerra doveva significare la fine del giolittismo e l'avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Inoltre, le minoranze interventiste diedero prova di un'insospettata capacità di mobilitazione e - favorite dall'atteggiamento tutt'altro che imparziale delle autorità - seppero impadronirsi, nei momenti decisivi, del dominio delle piazze: riuscirono quindi a imporre l'immagine di se stesse come rappresentanti del "paese reale" in contrapposizione al Parlamento giolittiano, giudicato imbelle e corrotto. Bisogna ricordare, infine, che il partito della guerra poteva contare sui settori più giovani e dinamici della società, quelli che più contribuivano a formare l'opinione pubblica. Erano in maggioranza interventisti gli studenti, gli insegnanti, gli impiegati, i professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta, più sensibile ai valori patriottici. Erano interventisti, con poche eccezioni fra cui quella illustre di Benedetto Croce, gli intellettuali di maggior prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello di Gabriele D'Annunzio che, noto fin allora come scrittore raffinato e come personaggio eccentrico, si improvvisò per l'occasione capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni di piazza a favore dell'intervento.
Ma ciò che in definitiva decise l'esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu l'atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava, a norma dello Statuto, il potere di decidere i destini del paese in materia di alleanze internazionali. Fin dall'autunno '14, dopo il fallimento del piano di guerra tedesco, Salandra e Sonnino allacciarono contatti segretissimi con l'Intesa, pur continuando nel contempo a trattare con gli imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità. Infine decisero, col solo avallo del re e senza informare né il Parlamento né gli altri membri del governo, di accettare le proposte dell'Intesa firmando, il 26 aprile 1915, il cosiddetto Patto di Londra, con Francia, Inghilterra e Russia. Le clausole principali prevedevano che l'Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine "naturale" del Brennero, la Venezia Giulia e l'intera penisola istriana (con l'esclusione della città di Fiume), una parte della Dalmazia con numerose isole adriatiche.
Restava da superare, a questo punto, la prevedibile opposizione della maggioranza neutralista della Camera, cui spettava la ratifica del trattato. Quando, ai primi di maggio, Giolitti, non ancora al corrente del Patto di Londra, si pronunciò per la continuazione delle trattative con l'Austria, ben trecento deputati gli manifestarono solidarietà, inducendo Salandra a rassegnare le dimissioni. Ma la volontà neutralista del Parlamento fu di fatto scavalcata: da un lato dalla decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra, mostrando così di approvarne l'operato; dall'altro dalle manifestazioni di piazza che in quei decisivi giorni di maggio (le "radiose giornate" celebrate dalla retorica interventista) si fecero sempre più imponenti e più minacciose. Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l'adesione alla guerra e un voto contrario che sconfessasse con il governo lo stesso sovrano, aprendo così una crisi istituzionale, la Camera approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio dichiarava guerra all'Austria. Il 24 ebbero inizio le operazioni militari.
Disorientati e isolati, i socialisti non riuscirono a organizzare una opposizione efficace e dovettero accontentarsi di ribadire solennemente la loro ostilità alla guerra e la loro fedeltà all'internazionalismo proletario. La stessa formula "né aderire né sabotare", coniata per definire l'atteggiamento del partito a intervento ormai deciso, era poco più di una dichiarazione di principio e un'implicita confessione di impotenza.
La crisi dell'intervento aveva comunque lasciato un segno profondo nella vita politica italiana, mostrando che larga parte delle masse popolari rimaneva estranea ai valori patriottici; che la mediazione parlamentare non controllava più i fenomeni politici ed era rifiutata da larghi strati di opinione pubblica; che nuovi metodi di lotta potevano prendere il sopravvento su quelli tipici dello Stato liberale.
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