21.10 L'Italia e il disastro di Caporetto
Anche per l'Italia il 1917 fu l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato. Tra i soldati le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti, anche se non giunsero mai a coagularsi in un movimento di ampie proporzioni. Intanto fra la popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dall'aumento dei prezzi e dalla carenza di generi alimentari. Si trattava per lo più di manifestazioni spontanee che vedevano in prima fila le donne e si esaurivano nel giro di poche ore. L'unico vero episodio insurrezionale si verificò a Torino fra il 22 e il 26 agosto, quando una protesta originata dalla mancanza di pane si trasformò in una autentica sommossa, con forte partecipazione operaia.
Fatti come quelli di Torino indicavano comunque che la situazione si stava avvicinando al punto di rottura. Fu in questa situazione che i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo per infliggere un colpo decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917, un'armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di
Caporetto. Gli attaccanti avanzarono in profondità nel Friuli, mettendo in atto per la prima volta la nuova tattica dell'infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace e inattesa che buona parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Alcuni reparti riuscirono a ripiegare ordinatamente, altri si disgregarono: 400.000 sbandati rifluirono verso il Veneto mescolandosi alle colonne di profughi civili e dando alla ritirata l'aspetto di un'autentica rotta. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave, lasciando in mano al nemico circa 10.000 km2 di territorio italiano, oltre a 300.000 prigionieri e a una quantità impressionante di armi, munizioni e vettovaglie.
Prima di essere rimosso dal comando supremo, dove fu sostituito da
Armando Diaz, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall'offensiva di essersi arresi senza combattere. In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall'attacco sull'alto Isonzo, ed era diventata irreparabile per l'efficacia della manovra ideata dagli strateghi tedeschi. Certo le conseguenze della sconfitta furono ingigantite dallo stato di stanchezza e di demoralizzazione delle truppe: ma una simile condizione era in larga parte comune a tutti gli eserciti, a cominciare da quello austriaco. Del resto i soldati italiani dimostrarono di saper combattere valorosamente resistendo, sul Piave e sul Monte Grappa, all'avanzata degli austro-tedeschi che minacciavano di dilagare nella Pianura Padana ed evitando così che la sconfitta si trasformasse in una definitiva catastrofe.
Paradossalmente la svolta imposta dalla disfatta di Caporetto finì con l'avere ripercussioni positive sull'andamento della guerra italiana. I soldati si trovarono a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica, al fronte come nel paese. Intorno al nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da
Vittorio Emanuele Orlando (un giurista siciliano che era stato più volte ministro con Giolitti), le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia. Gli stessi leader dell'ala riformista del Psi, con in testa Turati, assicurarono la loro solidarietà allo sforzo di resistenza del paese.
Anche il cambio della guardia alla testa dell'esercito ebbe effetti positivi sul morale delle truppe. Il nuovo capo di stato maggiore si mostrò meno incline di Cadorna all'uso indiscriminato dei mezzi repressivi e più attento alle esigenze dei soldati. Profittando anche del fatto che la ritirata sul Piave aveva consentito un notevole accorciamento del fronte e quindi un minor logorìo dei reparti combattenti, il comando supremo mise in atto una serie di provvedimenti volti a sollevare le condizioni materiali e morali dei soldati: vitto più abbondante, licenze più frequenti, maggiori possibilità di svago.
Inoltre, a cominciare dall'inizio del '18, fu svolta un'opera sistematica di propaganda fra le truppe, attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio P (cioè propaganda) che si affidava soprattutto all'opera degli ufficiali inferiori e si valeva anche della collaborazione di numerosi intellettuali di prestigio. Attraverso la propaganda si cercò di prospettare ai soldati la possibilità di vantaggi materiali di cui il paese e i singoli cittadini avrebbero potuto godere in caso di vittoria (fu in questo clima che cominciò a circolare la parola d'ordine della terra ai contadini); ma ci si sforzò anche di presentare la guerra in una nuova cornice ideologica, di dipingerla come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale. Prendeva corpo così l'idea della guerra democratica, già agitata dagli interventisti di sinistra e - come vedremo - rilanciata con ben altra autorità dal presidente americano Wilson.
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