21.13 I trattati di pace e la nuova carta d'Europa
Un compito di eccezionale difficoltà era quello che attendeva gli statisti impegnati nella conferenza della pace, i cui lavori si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di
Versailles presso Parigi e si protrassero per oltre un anno e mezzo. Si doveva ridisegnare la carta politica del vecchio continente, rimasta pressoché immutata per oltre mezzo secolo e ora sconvolta dal crollo contemporaneo di ben quattro imperi (tedesco, austro-ungarico, russo e turco). Si doveva ricostruire un equilibrio europeo. Ma era anche necessario tener conto di quei princìpi di democrazia e di giustizia internazionale a cui i governi dell'Intesa si erano esplicitamente richiamati nell'ultima fase del conflitto. Né si potevano ignorare le pressioni che negli stessi paesi vincitori venivano da un'opinione pubblica spesso infiammata dal nazionalismo, diventato ormai fenomeno di massa: un fenomeno che i governi cercarono di utilizzare, ma non sempre seppero dominare.
Quando la conferenza si aprì, era convinzione diffusa che la sistemazione dell'Europa postbellica si sarebbe fondata essenzialmente sul programma indicato da Wilson nei suoi "quattordici punti" e che le nuove frontiere avrebbero tenuto conto del principio di nazionalità e della volontà liberamente espressa dalle popolazioni interessate. In pratica, però, la realizzazione del programma wilsoniano si rivelò assai problematica. In un'Europa popolata da gruppi etnici spesso intrecciati fra loro, non era facile applicare i princìpi di nazionalità e di autodeterminazione senza rischiare di far nascere nuovi irredentismi. Inoltre quei princìpi non sempre erano compatibili con l'esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti - considerati i responsabili della guerra e non rappresentati alla conferenza - e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibilità di rivincite da parte degli ex nemici.
Questi problemi si manifestarono fin dalle prime discussioni fra i capi di governo delle principali potenze vincitrici: l'americano Wilson, il francese Clemenceau, l'inglese Lloyd George e l'italiano Orlando (il quale, pur figurando nominalmente fra i "quattro grandi", svolse in realtà un ruolo marginale). Il contrasto fra l'ideale di una pace democratica e l'obiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi, che miravano apertamente all'annientamento politico ed economico della potenza tedesca, non si accontentavano della restituzione dell'Alsazia-Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l'annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania. Ma questi progetti incontravano l'opposizione decisa di Wilson e quella, meno esplicita, degli inglesi, contrari per lunga tradizione allo strapotere di un unico Stato sul continente europeo. Clemenceau dovette dunque accettare, e far accettare ai suoi compatrioti, la rinuncia al confine sul Reno, in cambio della promessa di una garanzia anglo-americana delle nuove frontiere franco-tedesche. La Germania poté limitare le amputazioni territoriali, ma subì, senza nemmeno poterle discutere, una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze.
Il trattato di pace con la Germania - il primo e il più importante fra quelli conclusi nella conferenza di Versailles - fu firmato il 28 giugno 1919. Si trattò di una vera e propria imposizione (un Diktat, come allora fu definito con termine tedesco), subita sotto la minaccia dell'occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale il trattato prevedeva, oltre alla restituzione dell'Alsazia-Lorena alla Francia, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'alta Slesia, la Posnania più una striscia della Pomerania (il cosiddetto corridoio polacco) che interrompeva la continuità territoriale fra Prussia occidentale e Prussia orientale per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e di accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch'essa tolta alla Germania e trasformata in "città libera". Complessivamente la Germania perse circa un ottavo del suo territorio e un decimo della sua popolazione di prima della guerra. E perse anche le sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subiti in conseguenza del conflitto. L'entità delle riparazioni sarebbe stata fissata solo in seguito; ma era chiaro che essa avrebbe dovuto essere tale da rendere impossibile per molto tempo una ripresa economica tedesca. Per finire, la Germania fu costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100.000 uomini dotati del solo armamento leggero e a lasciare "smilitarizzata" - priva cioè di reparti armati e di fortificazioni - l'intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente la Germania nel suo orgoglio nazionale, oltre che nei suoi interessi. Ma erano anche, agli occhi dei vincitori e soprattutto dei francesi, l'unico mezzo per impedire alla Germania - che restava pur sempre lo Stato più popoloso, più industrializzato e potenzialmente più ricco dell'Europa continentale (Russia a parte) - di riprendere la posizione di grande potenza che naturalmente le competeva.
Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell'Impero asburgico. A fare le spese della nuova sistemazione furono i gruppi etnici tedesco e ungherese, che avevano avuto una posizione dominante nella duplice monarchia e che furono trattati alla stregua di popoli vinti. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85.000 km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a Vienna, una capitale ormai sproporzionata alle dimensioni e alle risorse del piccolo Stato. Il trattato di pace stabiliva inoltre che l'indipendenza austriaca sarebbe stata affidata alla tutela della costituenda Società delle nazioni: una formula che serviva a mascherare l'opposizione delle potenze vincitrici all'eventualità di un'unificazione con la Germania (vista invece con favore in entrambi i paesi interessati). Un trattamento severo toccò all'Ungheria che, costituitasi in repubblica nel novembre '18, perse non solo tutte le regioni slave fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare.
A trarre vantaggio dal crollo dell'Impero asburgico, oltre all'Italia (
24.3), furono soprattutto i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli imperi russo e tedesco. I boemi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi (i sudeti). Gli slavi del Sud - cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina - si unirono a Serbia e Montenegro per dar vita alla Jugoslavia. Il nuovo assetto balcanico era completato dall'ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall'Europa dell'Impero ottomano che, privato contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava in Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell'Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata alla Grecia.
Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, com'era naturale, imposero alla Germania l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk. Ma non riconobbero la Repubblica socialista (che non partecipò alla conferenza della pace); anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate con l'appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di Stati-cuscinetto (le quattro repubbliche baltiche, oltre alla Polonia e alla Romania) che le erano tutti fortemente ostili: un vero e proprio cordone sanitario, come allora fu definito, che aveva la funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e, con essa, ogni possibile contagio rivoluzionario.
Torna all'indice