24.3 La "vittoria mutilata" e l'impresa fiumana
Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l'Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata. Non solo aveva raggiunto i sospirati "confini naturali", ma aveva visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l'Impero asburgico. La dissoluzione dell'Austria-Ungheria poneva però una serie di problemi non previsti nel momento in cui era stato stipulato il Patto di Londra (
21.3): in esso si stabiliva, fra l'altro, che la Dalmazia - abitata in prevalenza da slavi e ora rivendicata dal nuovo Stato jugoslavo - fosse annessa all'Italia e che la città di Fiume - dove gli italiani erano in maggioranza - restasse all'Impero austro-ungarico. Per i governanti italiani si imponeva quindi una scelta: restare ancorati ai canoni della vecchia diplomazia e pretendere il rispetto integrale del Patto di Londra, o abbracciare i princìpi della nuova "politica delle nazionalità", rinunciando ai vantaggi territoriali in Dalmazia e puntando sull'amicizia con la Jugoslavia.
La delegazione italiana alla conferenza di Versailles, capeggiata dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli Esteri Sonnino, cercò di eludere questa scelta, chiedendo l'annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, ma in aggiunta ai territori promessi nel '15. Tali richieste incontrarono l'opposizione degli alleati, in particolare di Wilson che non era vincolato dalle clausole del Patto di Londra. Nell'aprile del '19, per protestare contro l'atteggiamento del presidente americano - che aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano - Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Ma un mese dopo dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato.
Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando, che si dimise a metà giugno. Il nuovo ministero presieduto da
Francesco Saverio Nitti (economista e meridionalista di orientamento democratico) si trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata. Gli avvenimenti della primavera '19 avevano infatti suscitato in larghi strati dell'opinione pubblica borghese un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l'Italia dei frutti della vittoria, e verso la stessa classe dirigente, giudicata incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si parlò allora di vittoria mutilata: un'espressione coniata da
Gabriele D'Annunzio, ormai assurto al ruolo di vate nazionale, anche in virtù di alcune audaci e fortunate imprese compiute durante la guerra.
La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di D'Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l'annessione all'Italia. Concepita all'inizio come un mezzo di pressione sul governo, l'avventura fiumana si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un'inedita esperienza politica. A Fiume, dove D'Annunzio istituì una provvisoria "reggenza", si diedero convegno i personaggi più disparati: alti ufficiali con inclinazioni al colpo di Stato e politici in cerca di fortuna; giovani idealisti e avventurieri d'ogni tipo; nazionalisti e antichi sovversivi (soprattutto sindacalisti rivoluzionari); esuli di diverse nazionalità che protestavano contro i trattati di Versailles. A Fiume maturò il piano, non attuato, di una marcia che avrebbe dovuto concludersi a Roma con la cacciata del governo. A Fiume, infine, furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi (adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla) che sarebbero stati ripresi e applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni '20 e '30.
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