24.4 Le agitazioni sociali e le elezioni del '19
Fra il 1919 e il 1920, in coincidenza con l'impresa fiumana e con le polemiche sulla questione adriatica, l'Italia attraversò una fase di convulse agitazioni sociali e di profondi mutamenti negli equilibri politici. Fra il '18 e il '20, i prezzi continuarono ad aumentare (con un ritmo annuo superiore al 30%). Fra il giugno e il luglio del '19, le principali città italiane furono teatro di una serie di violenti tumulti contro il caro-viveri. Più in generale, l'aumento del costo della vita determinò una continua rincorsa fra salari e prezzi, che si tradusse a sua volta in una grande ondata di agitazioni sindacali. Gli scioperi nell'industria passarono dai 300 del '18 ai 1660 del '19, con un numero di lavoratori coinvolti superiore al milione (una cifra senza precedenti per l'Italia) e aumentarono ancora nel 1920 (1880 scioperi con 1.270.000 scioperanti). Anche il settore dei servizi pubblici, in genere meno sindacalizzato, fu sconvolto da una lunga serie di scioperi: furono soprattutto questi ultimi a suscitare disagio nell'opinione pubblica e a provocare le prime reazioni contro quella che venne definita "scioperomania".
Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. Oltre alla Bassa Padana, dove prevaleva il bracciantato e dove le leghe rosse avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni interessarono anche altre aree del Centro-nord: zone in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà e in cui erano attive, spesso in concorrenza con le organizzazioni socialiste, le leghe bianche cattoliche. Leghe bianche e leghe rosse si battevano spesso per le stesse rivendicazioni immediate, ma divergevano profondamente negli obiettivi di lungo periodo. Mentre le organizzazioni socialiste insistevano sul programma massimo della "socializzazione della terra", i cattolici difendevano la mezzadria e le altre forme di compartecipazione e si battevano per lo sviluppo della piccola proprietà contadina. L'aspirazione alla proprietà della terra fu all'origine di un altro movimento che si sviluppò in forma spontanea, tra l'estate e l'autunno del '19 (e ancora nel corso del '20) nelle campagne del Centro-sud: l'occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti.
Se si guarda al panorama complessivo delle agitazioni sociali nel primo biennio postbellico, ciò che più colpisce è la mancanza di un collegamento reciproco. Le molte piccole rivoluzioni che sconvolsero il paese all'indomani della guerra procedettero ognuna per proprio conto o addirittura l'una contro l'altra, seguendo - ed esasperando - le tradizionali linee di divisione della società italiana: borghesi-proletari, laici-cattolici, operai-contadini, Nord-Sud, città-campagna, patria-socialismo.
Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che ebbero luogo nel novembre 1919, diedero la misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico, ma mostrarono anche la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema politico. Furono queste le prime elezioni tenute col metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito (anziché fra singoli candidati) e che, contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale, assicurava alle varie liste un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati su base nazionale. L'esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente. I gruppi liberal-democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a circa 200. I socialisti si affermarono come il primo partito con 1.800.000 voti (pari al 32%) e 156 seggi (tre volte più che nel '13), seguiti dai popolari, con 1.160.000 voti e 100 deputati.
Questi risultati mostravano che il sistema politico, sollecitato da nuove istanze e da nuove presenze, non era capace né di reggersi secondo il vecchio equilibrio né di esprimerne uno nuovo: anche a causa della frammentazione prodotta dal sistema proporzionale che, riproducendo fedelmente le tendenze dell'elettorato, non favoriva la formazione di maggioranze omogenee. Dal momento che il Psi rifiutava ogni collaborazione coi gruppi "borghesi", l'unica maggioranza possibile era quella basata sull'accordo fra popolari e liberal-democratici. Su questa precaria coalizione si fondarono gli ultimi governi dell'era liberale.
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