24.5 Giolitti, l'occupazione delle fabbriche e la nascita del Pci
Indebolito dall'esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, quando a costituire il nuovo governo fu chiamato l'ormai ottantenne Giovanni Giolitti. Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra, Giolitti era rientrato in scena alla vigilia delle elezioni delineando, in un celebre discorso pronunciato a Dronero, in Piemonte, un programma molto avanzato, in cui si proponeva fra l'altro la nominatività dei titoli azionari (cioè l'obbligo di intestare le azioni al nome del possessore, permettendone così la tassazione) e un'imposta straordinaria sui "sovraprofitti" realizzati dall'industria bellica. Le preoccupazioni che questo programma suscitava negli ambienti conservatori passarono in secondo piano rispetto alla speranza che il vecchio statista riuscisse a domare l'opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare.
In effetti, nei dodici mesi in cui tenne la guida dell'esecutivo, Giolitti diede prova ancora una volta di abilità e di energia. I risultati più importanti il governo li ottenne in politica estera, imboccando l'unica strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato diretto con la Jugoslavia. Il negoziato si concluse, il 12 novembre 1920, con la firma del trattato di Rapallo. L'Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l'Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all'Italia. Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924). Il trattato fu accolto con generale favore dall'opinione pubblica e dalle forze politiche. A Fiume, D'Annunzio annunciò una resistenza a oltranza; ma, quando, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la città dalla terra e dal mare, preferì abbandonare la partita.
Molto più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell'erario, fin dagli anni della guerra) e avviò così il risanamento del bilancio statale; ma non riuscì a rendere operanti i progetti di tassazione dei titoli azionari e dei profitti di guerra, progetti che sarebbero poi stati affossati dai successivi governi. Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo dello statista piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma, nel ripetere insomma l'esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo. In realtà, quell'esperienza non era più ripetibile: i liberali non avevano più la solida maggioranza dell'anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da quelle di vent'anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della lotta politica si era ormai spostato dal Parlamento alle segreterie dei partiti, alle centrali sindacali o addirittura alle piazze; i conflitti sociali, infine, conobbero, nell'estate-autunno del '20, il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminata nell'occupazione delle fabbriche.
La vertenza vedeva contrapposti i nuclei di punta del mondo imprenditoriale e del movimento operaio italiano. Da un lato gli industriali del settore metalmeccanico, ingranditosi con la produzione bellica, minacciato dai primi segni di una crisi produttiva e anche per questo deciso a cercare la prova di forza. Dall'altro una categoria operaia compatta e combattiva, che era organizzata dal più forte dei sindacati aderenti alla Cgl (la Fiom, Federazione italiana operai metallurgici), ma aveva visto anche svilupparsi, al di fuori dei canali sindacali ufficiali, l'esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: organismi eletti direttamente dai lavoratori e ispirati dal gruppo torinese dell'"Ordine Nuovo" (
24.2) che vedeva in essi un nuovo strumento di "democrazia operaia", una sorta di corrispettivo italiano dei soviet.
Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di agosto, in risposta alla serrata (cioè alla chiusura degli stabilimenti) attuata da un'azienda milanese, la Fiom ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche. Nei primi giorni di settembre, quasi tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici (e anche di altri settori) furono occupati da circa 400.000 operai, che issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine, organizzarono servizi armati di vigilanza e cercarono, ove possibile, di proseguire da soli il lavoro.
La maggior parte dei lavoratori visse questa esperienza come l'inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi ben oltre le officine occupate. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche, di collegarsi ad altre lotte sociali in corso (per esempio a quelle delle campagne padane), di porsi in modo concreto il problema del potere. Nemmeno i gruppi più coerentemente rivoluzionari, come i torinesi dell'"Ordine Nuovo", avevano idee precise sul modo in cui spostare il movimento dal terreno della vertenza sindacale a quello dell'attacco allo Stato. Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano come obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Il 19 settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una commissione paritetica l'incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale (che peraltro non avrebbe trovato attuazione pratica).
Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma sul piano politico la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni "eroici" dell'occupazione. D'altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la "grande paura" della rivoluzione, cominciava a serrare i suoi ranghi, apprestandosi a sfruttare ogni occasione di rivincita.
L'esito dell'occupazione delle fabbriche lasciò nelle file del movimento operaio uno strascico di recriminazioni e polemiche. I dirigenti riformisti della Cgl erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale. Ma anche la direzione massimalista del Psi era attaccata dai gruppi di estrema sinistra per il suo comportamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con le fratture provocate dal II Congresso del Comintern (
22.4): dove, come si ricorderà, erano state fissate le condizioni per l'ammissione dei partiti operai all'Internazionale comunista. Due furono i punti più controversi: quello in cui si ingiungeva ai partiti aderenti di assumere la denominazione di "Partito comunista" e quello in cui si imponeva l'espulsione degli elementi "riformisti e centristi". Serrati e i massimalisti rifiutarono di sottostare a queste condizioni: sia perché le ritenevano lesive dell'autonomia del partito, sia perché sapevano che, espellendo i riformisti, il Psi avrebbe perso buona parte dei suoi quadri sindacali, dei suoi deputati, dei suoi amministratori locali. Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non furono espulsi e fu invece la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per fondare il
Partito comunista d'Italia.
Il nuovo partito nasceva così con una base piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava dileguando in Italia e in tutta Europa. D'altra parte la scissione comunista non servì nemmeno a determinare una svolta nel Psi: in questo partito la minoranza riformista rimase come prigioniera di una maggioranza massimalista sempre ferma nel rifiutare ogni ipotesi di collaborazione con le forze borghesi e sempre più impotente a contrastare l'ondata antisocialista che intanto andava montando nel paese.
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