24.6 Il fascismo agrario e le elezioni del '21
L'occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. Provata da due anni di lotte e indebolita dalle divisioni interne, la classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi recessiva che stava investendo l'economia italiana ed europea e che si tradusse in un forte aumento della disoccupazione e in una perdita di potere contrattuale per i lavoratori. In questo quadro, in larga parte comune a tutta l'Europa, si inserì un fenomeno che invece non aveva riscontro in nessun altro paese e che aveva origine nelle campagne: lo sviluppo improvviso del fascismo agrario.
Fino all'autunno del '20, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica (nelle elezioni del '19 le liste dei Fasci avevano ottenuto poche migliaia di voti e nessun deputato) e non era uscito dall'ambito dei gruppetti di matrice interventista a base urbana, intellettuale e piccolo-borghese. Tra la fine del '20 e l'inizio del '21, il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originario programma radical-democratico, a fondarsi su strutture paramilitari (le squadre d'azione) e a puntare le sue carte su una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. Questa trasformazione si spiega in parte con una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l'ondata di riflusso antisocialista seguita al biennio rosso; in parte va ricollegata alla particolare situazione delle campagne padane, dove il fascismo agrario si sviluppò: che erano poi le zone in cui più forte era la presenza delle leghe rosse.
In due anni di lotte aspre e quasi sempre vittoriose (tipico il caso del grande sciopero agrario del Bolognese, durato ben dieci mesi e conclusosi, nell'ottobre del '20, con una sostanziale capitolazione dei proprietari), le leghe socialiste non solo avevano ottenuto notevoli miglioramenti salariali, ma avevano creato un "sistema" apparentemente inattaccabile. Attraverso i loro uffici di collocamento, le leghe controllavano il mercato del lavoro, contrattando con i proprietari il numero di giornate lavorative da svolgere su ogni fondo e distribuendone il carico fra i propri associati. I socialisti disponevano inoltre di una fitta rete di cooperative e avevano in mano buona parte delle amministrazioni comunali, delle quali si servivano per sostenere le lotte dei salariati agricoli. Questo sistema, nato quasi spontaneamente sull'onda delle lotte dei braccianti, non era privo di aspetti autoritari (chi si sottraeva alla disciplina della lega veniva "boicottato", in pratica bandito dalla comunità) e celava al suo interno non pochi motivi di debolezza. Primo fra tutti il contrasto fra la strategia delle organizzazioni socialiste - che privilegiavano il ruolo dei salariati senza terra e miravano all'obiettivo finale della socializzazione - e gli interessi delle categorie intermedie (mezzadri, piccoli affittuari, salariati fissi stabilmente impiegati nell'azienda agraria), che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei braccianti e a trasformarsi in proprietari. Queste categorie avevano accettato il sistema delle leghe anche perché ne ricevevano vantaggi in termini sindacali. Ma le cose cambiarono nel momento in cui l'offensiva fascista aprì le prime brecce nell'edificio delle organizzazioni rosse.
L'atto di nascita del fascismo agrario viene comunemente individuato nei fatti di Palazzo d'Accursio, a Bologna, del 21 novembre 1920, quando i fascisti si mobilitarono per impedire la cerimonia d'insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie dentro e fuori il municipio. Per un tragico errore, i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale spararono sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Episodi analoghi si verificarono un mese dopo nel Ferrarese, dopo l'uccisione di tre fascisti.
In entrambi i casi i socialisti furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzare reazioni adeguate. La loro incertezza e la loro vulnerabilità accrebbero l'audacia degli avversari. I proprietari terrieri scoprirono nei fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile; figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere una loro battaglia contro i presunti nemici della patria. Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello
squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell'Umbria e facendo qualche sporadica comparsa nelle grandi città del Centro-nord. Pressoché immune dal contagio fascista rimase per il momento solo il Mezzogiorno, con l'eccezione della Puglia, dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste.
L'offensiva squadrista ebbe ovunque le stesse caratteristiche. Le squadre partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano i municipi, le camere del lavoro, le sedi delle leghe, le case del popolo, che vennero sistematicamente devastati e incendiati, e le persone stesse dei dirigenti e dei semplici militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze e spesso costretti a lasciare il loro paese. Buona parte delle amministrazioni "rosse" della Valle Padana furono costrette a dimettersi. Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti furono indotti, con le buone o con le cattive maniere, ad aderire a nuove organizzazioni costituite dagli stessi fascisti, che dal canto loro promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà coltivatrice.
Il successo travolgente dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine "militare"; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti e di non poco conto. In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che godeva di un notevole margine di impunità, potendo giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali. Quasi mai la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i "rossi", si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La stessa magistratura adottò nei confronti dei fascisti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, guardò con malcelata compiacenza allo sviluppo del movimento fascista, pensando di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito "costituzionalizzare" assorbendolo nella maggioranza liberale.
In questa strategia si inquadrava la decisione di convocare nuove elezioni per il maggio 1921 e di favorire l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi "costituzionali" (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione piuttosto lieve (dal 32 al 25%), tenuto conto delle condizioni anomale in cui si era votato in molti collegi e dell'incidenza della scissione comunista (il Pci ottenne quasi il 5% dei voti). I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici uniti nei blocchi nazionali migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento. In definitiva, la maggior novità fu costituita dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale.
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