25.2 Gli anni dell'euforia: gli Stati Uniti prima della crisi
Durante la Grande Guerra gli Stati Uniti non solo avevano rinsaldato la loro posizione di primo paese produttore, ma avevano anche concesso cospicui prestiti ai loro alleati in Europa, divenendo il maggior esportatore di capitali. A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell'economia mondiale. Accanto al mercato finanziario di Londra cresceva di importanza quello di New York.
Il superamento della depressione postbellica del 1920-21 segnò per il sistema economico statunitense l'inizio di un periodo di grande prosperità. La diffusione della produzione in serie e della razionalizzazione del lavoro in fabbrica secondo i princìpi del taylorismo (
17.2) favorì notevoli aumenti di produttività: la produzione oraria per operaio nel settore manifatturiero crebbe infatti, fra il '19 e il '29, del 72%. La produzione industriale salì del 30% fra il '23 e il '29 e il reddito nazionale aumentò nello stesso periodo di quasi il 25%. Tuttavia, nonostante gli incrementi produttivi, il numero degli occupati nell'industria calò sensibilmente, a causa della cosiddetta disoccupazione tecnologica: gli sviluppi della tecnica diminuivano infatti la quantità di lavoro necessaria a ottenere un determinato prodotto, in misura tale da non poter essere compensata dall'aumento della produzione. Parallelamente andava invece crescendo, per l'espansione delle funzioni organizzative e burocratiche, l'occupazione nel settore dei servizi: gli Stati Uniti furono il primo paese in cui, alla fine degli anni '20, il numero degli occupati nel terziario superò quello degli addetti all'industria.
L'espansione industriale portò anche notevoli mutamenti nell'organizzazione della vita quotidiana. Alla fine degli anni '20 circolava negli Usa un'automobile ogni cinque abitanti (in Europa il rapporto era di 1 a 83), mentre l'uso degli elettrodomestici (radio, frigoriferi, aspirapolvere) si era largamente diffuso nelle famiglie, grazie anche ai sistemi di vendita rateale. Gli Stati Uniti divennero così il laboratorio in cui fu per la prima volta sperimentato un nuovo modo di vita, caratterizzato da una continua espansione dei consumi e da una loro progressiva standardizzazione.
Dal punto di vista politico, gli anni '20 furono segnati da un'incontrastata egemonia del Partito repubblicano. Sostenitori di un rigido liberismo economico e convinti che l'accumulazione della ricchezza privata costituisse la miglior garanzia di prosperità, i repubblicani attuarono una politica fortemente conservatrice: ridussero le imposte dirette, aumentando quelle indirette; mantennero la spesa pubblica a livelli molto bassi, rinunciando a operare in favore delle classi più povere; lasciarono cadere la legislazione antimonopolistica prebellica, favorendo la crescita di gigantesche corporations industriali e finanziarie. I presidenti repubblicani, insomma, costruirono le proprie fortune sposando in pieno la causa dell'affarismo e alimentando le più ottimistiche aspettative sui destini della prosperità americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi era infatti fortemente sperequata e comportava l'emarginazione di consistenti fasce della popolazione. Il ritmo di aumento dei salari era molto inferiore a quello dei profitti. Mentre gli operai di alcune industrie (tipico il caso della Ford) e altre minoranze di lavoratori qualificati erano favoriti sul piano retributivo e assistenziale, e potevano così inserirsi nel circuito della prosperità, assai misere restavano le condizioni di vita e di lavoro degli operai comuni e soprattutto dei lavoratori immigrati e di colore.
A tutto questo si aggiunse una diffusa ondata di conservatorismo ideologico che investì in primo luogo le minoranze nazionali e razziali. Furono introdotte leggi limitative dell'immigrazione, anche per impedire la contaminazione dei caratteri etnici della popolazione yankee e la diffusione di "ideologie sovversive" di origine europea. Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati di omicidio con una montatura giudiziaria e mandati a morte nel 1927 in spregio a tutte le prove della loro innocenza. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione di colore e la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di un'organizzazione di massa. Consistenti settori della popolazione si chiusero in una difesa ottusa e fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza. Lo stesso "proibizionismo" - cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al '34 - scaturì da questo retroterra culturale, poiché l'ubriachezza era ritenuta un vizio tipico di negri e proletari in genere.
Questa realtà sociale così contraddittoria non intaccava però il sostanziale ottimismo della borghesia americana e la sua fiducia in una continua moltiplicazione della ricchezza e in un indefinito processo di crescita. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede): un'attività consistente in gran parte in pure operazioni speculative, incoraggiate dalla prospettiva dei facili guadagni che si potevano ottenere acquistando azioni e rivendendole poi a prezzo maggiorato: il tutto facendo assegnamento sulla continua ascesa delle quotazioni sostenuta dalla crescente domanda di titoli.
Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenti assai fragili, come fragili erano le basi dell'intero processo di espansione sviluppatosi negli Stati Uniti degli anni '20. La domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare natura dei beni di consumo durevoli (che, non avendo bisogno di essere continuamente sostituiti, tendevano a "saturare" il mercato), sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali. Ai limiti del mercato interno l'industria statunitense aveva ovviato con l'aumento delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel vecchio continente. La generale ripresa dell'economia europea nella seconda metà degli anni '20 - resa possibile, come si è visto, da un cospicuo afflusso di capitali americani sotto forma di prestiti - aveva consentito all'industria statunitense, protetta da elevate barriere doganali, di allargare la sua penetrazione nei mercati europei. Fra economia americana ed economia europea si era così venuto a creare uno stretto e proficuo rapporto di interdipendenza: l'espansione americana finanziava la ripresa europea e questa a sua volta alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti. Ma questo meccanismo poteva incepparsi da un momento all'altro, anche perché i crediti statunitensi all'estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto. Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull'economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale americana, il cui indice cominciò a scendere già nell'estate del '29.
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