26. L'Europa negli anni '30: totalitarismi e democrazie
26.1 L'eclissi della democrazia
Nei primi anni del dopoguerra, la democrazia liberale era sembrata trionfare in tutta Europa sull'onda della vittoria dell'Intesa: quasi tutti gli Stati erano retti da regimi repubblicani o monarchico-costituzionali fondati sui princìpi della rappresentanza e della sovranità popolare. Ma già alla fine degli anni '20, con l'affermarsi di regimi autoritari in Italia, nell'Europa centro-orientale e nella penisola iberica (
24.12), le istituzioni parlamentari erano in crisi in buona parte del vecchio continente. Nei paesi di più antica democrazia questi avvenimenti furono interpretati da molti come una crisi di crescenza, legata all'immaturità politica degli Stati di nuova indipendenza, all'insufficiente radicamento dei princìpi democratico-liberali negli strati sociali solo di recente ammessi alla partecipazione politica, a un eccesso di reazione delle borghesie, spostate su posizioni antidemocratiche dalla temporanea minaccia di una rivoluzione socialista. Anche l'ascesa del fascismo in Italia era considerata dai più come un fenomeno limitato e difficilmente ripetibile.
Ma la situazione cambiò dopo la grande crisi del '29. Ovunque si rafforzarono le tendenze favorevoli all'autoritarismo e i successi del nazismo in Germania mostrarono a tutti che il fenomeno della disaffezione verso la democrazia aveva estensione più vasta e radici più profonde di quanto non si fosse supposto. Si diffuse allora, in ampi strati dell'opinione pubblica, la convinzione che il sistema democratico-liberale fosse per sua natura fragile e inefficiente, quindi destinato a sicura decadenza; e che la vera alternativa si ponesse ormai fra la destra autoritaria e il comunismo sovietico (anch'esso organizzato, con Stalin, nelle forme della dittatura personale). Giudicate troppo deboli e imbelli per difendere la patria dai nemici "interni" e per tutelarne il prestigio internazionale, le democrazie apparivano altresì incapaci di garantire il benessere economico.
A queste ragioni di sfiducia se ne aggiungeva un'altra meno razionale, ma più sottile. La democrazia era stata nell'800 un obiettivo affascinante, un ideale capace di suscitare intense passioni e lotte eroiche. Ma, una volta entrata negli ordinamenti di uno Stato, doveva necessariamente tradursi in ordinaria amministrazione. I traguardi che proponeva, e che per di più non sempre era in grado di raggiungere, apparivano banali e privi di fascino: si chiamavano benessere e sicurezza, ordine e tranquillità. Nulla che appagasse le inquietudini degli intellettuali e il bisogno di miti, di fedi assolute delle masse: un bisogno che l'avvento della società industriale non aveva spento, ma solo trasferito in forme diverse da quelle tradizionali e che l'esperienza della Grande Guerra - col suo corredo di orrori e di sofferenze, ma anche di leggende e di esaltazioni eroiche - aveva potentemente alimentato. Al contrario, i movimenti autoritari si collegavano proprio ai miti e alle tradizioni della guerra, esaltavano fino al parossismo i valori della nazione, chiamavano i loro aderenti alla lotta e al sacrificio, affermavano di voler creare l'"uomo nuovo" e, nello stesso tempo, di poter riportare in vita un passato glorioso e perduto.
Per tutti questi motivi, gli anni '30 rappresentarono in tutto il mondo il periodo di più acuta crisi dei princìpi democratici e di massima affermazione dei regimi che rifiutavano quei princìpi: si trattasse di sistemi conservatori-autoritari di tipo tradizionale (come quelli che abbiamo visto affermarsi in molte aree dell'Europa più arretrata) o di dittature "moderne", variamente ispirate all'esempio del fascismo italiano e, più tardi, del nazismo tedesco. Due regimi, questi ultimi, che - nonostante le molte differenze - si è soliti accomunare nella generica definizione di "fascismo".
Il fascismo - inteso appunto in questo senso - si presentava non tanto come agente della controrivoluzione, quanto come artefice di una propria originale rivoluzione, fondata su valori antitetici a quelli della sinistra democratica e socialista (che erano sempre stati indissolubilmente legati al concetto stesso di rivoluzione). Rivoluzionari erano i mezzi di cui si serviva per raggiungere il potere; e rivoluzionaria era senz'altro la sua aspirazione a costruire un ordine politico nuovo, diverso da quelli fin allora conosciuti. Anche in economia il fascismo non si limitava a combattere il socialismo e la lotta di classe, ma dichiarava di voler dar vita a un nuovo sistema che superasse l'anarchia del capitalismo borghese. In realtà, le innovazioni più importanti il fascismo le portò sul piano dell'organizzazione del potere: struttura autoritaria e gerarchica dello Stato, inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido controllo statale sull'informazione e sulla cultura. In campo economico e sociale, invece, un nuovo modello non riuscì mai a prender corpo: le proposte radicali contenute nei programmi originari del fascismo e del nazismo furono man mano lasciate cadere; e l'unica vera novità consistette nella soppressione della libera dialettica sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell'intervento statale in economia (una tendenza che, peraltro, era comune a tutti i paesi colpiti dalla grande crisi).
Eppure, nonostante la sua sostanziale inconsistenza - o forse proprio per la vaghezza dei suoi contorni - la terza via proposta dal fascismo esercitò una notevole attrazione. Sensibili alla seduzione fascista furono soprattutto gli strati intermedi della società: sia quelli che erano stati i più danneggiati dall'inflazione postbellica, sia quelli "emergenti" (piccoli imprenditori, commercianti, tecnici legati ai settori produttivi più avanzati) che avevano progredito in termini di reddito e di status sociale. Scarso, anche se non trascurabile, fu il successo dei movimenti fascisti fra le classi popolari, in particolare fra gli operai. Quanto alla grande borghesia, essa appoggiò il fascismo più per calcolo utilitaristico che per convinzione, cercò di utilizzarlo - e spesso vi riuscì - ma non cessò mai di temerlo. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze, ai piccolo-borghesi delusi dalla democrazia e spaventati dall'alternativa comunista, il fascismo pareva invece offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere a una comunità e di riconoscersi in un capo, la convinzione di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui privilegi di nascita), l'identificazione certa di un nemico.
Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di "massificazione": dunque una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un'esaltazione di alcuni suoi aspetti. Più e meglio di quanto non avessero mai fatto le classi dirigenti liberal-democratiche, il fascismo seppe capire la società di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le tecniche e gli strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il cinema), i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative, in particolare quelle giovanili. Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell'età di Stalin; fu insomma propria di tutti quei regimi che, per la loro pretesa di dominare in modo "totale" la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti totalitari.
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