26.7 L'Unione Sovietica e l'industrializzazione forzata
Negli anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all'Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui princìpi del socialismo e che si presentava come l'estrema riserva dell'antifascismo mondiale. Non solo, ma, mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della grande crisi, l'Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata: anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di industrializzazione.
La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all'esperienza della Nep (
22.6) fu presa da Stalin tra il '27 e il '28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell'opposizione di sinistra che proprio sulla necessità dell'industrializzazione aveva impostato la sua battaglia. Del resto quasi tutto il gruppo dirigente comunista aveva sempre considerato la Nep come una soluzione di ripiego. L'idea - comune a Lenin e a tutto il partito bolscevico - dell'industrializzazione come presupposto insostituibile della società socialista si univa alla convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un deciso impulso all'industria pesante avrebbe potuto fare dell'Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche. Ma, per raggiungere questo scopo in tempi brevi, era necessario che lo Stato acquistasse il controllo completo dei processi economici, anche a costo di rompere la relativa tregua sociale stabilitasi negli anni della Nep.
Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un'economia totalmente collettivizzata e altamente industrializzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di arricchirsi alle spalle del popolo e di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta. Contro di loro furono adottate misure restrittive e operate ingenti requisizioni. E, poiché queste misure si rivelarono inefficaci (i contadini reagirono limitando la produzione e aggravando i problemi di approvvigionamento), Stalin proclamò, nell'estate '29, la necessità di procedere immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo e addirittura di "eliminare i kulaki come classe". Contro questa linea prese posizione Nikolaj Bucharin, numero due del regime e convinto teorico della Nep, che sosteneva la necessità di non spezzare l'alleanza fra operai e contadini. Ma la maggioranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi amici, condannati nel 1930 come "deviazionisti di destra" subirono una sorte analoga a quella dell'opposizione "di sinistra". E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una inevitabile, sanguinosa repressione.
Non solo i contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive (kolchozy) furono considerati come "nemici del popolo". Migliaia furono i fucilati dopo processi sommari. Centinaia di migliaia gli arrestati. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali. Quella attuata nelle campagne dell'Urss fra il '29 e il '33 fu una gigantesca rivoluzione dall'alto, come la definì lo stesso Stalin. Nel giro di pochi anni i kulaki, che erano più di 5 milioni, furono eliminati non solo "come classe" ma, in larga parte, anche come persone fisiche. La maggioranza dei contadini (il 60% nel '33, oltre il 90% nel '39) fu inserita nelle fattorie collettive. L'eccesso di popolazione nelle campagne fu drasticamente ridotto con le deportazioni ed anche con l'emigrazione verso i centri industriali. Ma i costi economici dell'operazione - per non parlare di quelli umani - furono altissimi e i risultati immediati disastrosi. Disorganizzazione e inefficienza si sommarono alla resistenza dei contadini (che preferirono, ad esempio, macellare subito il bestiame piuttosto che consegnarlo ai kolchozy). Solo nella seconda metà degli anni '30, la situazione si andò gradualmente normalizzando e la produzione agricola - grazie anche al massiccio impiego di macchine e concimi - superò i livelli dei tempi della Nep.
Il vero scopo della collettivizzazione non era però tanto quello di aumentare la produzione agricola, quanto quello di favorire l'industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli, anche se inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l'industria, varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita del settore fu comunque imponente e si svolse con ritmi che nessun paese capitalistico aveva mai conosciuto fin allora. Nel 1932 la produzione industriale era aumentata, rispetto al '28, di circa il 50%, con punte del 200% per il carbone e l'acciaio, e il numero degli addetti all'industria era passato da 3 milioni scarsi a oltre 5 milioni. Col secondo piano quinquennale (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni.
Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di risorse - resa a sua volta possibile da un gigantesco prelievo di ricchezza a spese dell'intera popolazione -, ma anche dal clima di entusiasmo fra ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che permise ai lavoratori dell'industria di sopportare sacrifici pesanti, anche se non paragonabili a quelli dei contadini, in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono infatti sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della militarizzazione; ma furono anche stimolati con incentivi materiali che premiavano in modo vistoso i lavoratori più produttivi. Agli incentivi materiali si univano quelli morali. I lavoratori che contribuivano in misura maggiore alla crescita della produzione venivano promossi e insigniti di onorificenze (il titolo più ambito era quello di "eroe del lavoro"). Si diffuse così uno spirito di emulazione che spesso sconfinava in una sorta di competizione sportiva. Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte a quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di massa detto appunto stachanovismo, sostenuto dalle autorità ed esaltato da Stalin. La letteratura, la stampa e il cinema si mobilitarono per celebrare i trionfi degli "eroi del lavoro" e dell'"emulazione socialista".
L'eco di questi successi si diffuse rapidamente al di là dei confini dell'Urss, galvanizzando i comunisti di tutto il mondo che ne trassero auspici per un prossimo trionfo della rivoluzione nell'Occidente capitalistico. Anche esponenti socialdemocratici e laburisti espressero ammirazione per lo sforzo dell'Unione Sovietica. Intellettuali fin allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o aderenti. Il tentativo intrapreso dall'Urss aveva in effetti qualcosa di eroico. Né era possibile ignorare il fatto senza precedenti di un paese che nel giro di un decennio riusciva a quasi triplicare il volume della produzione industriale e a quasi quadruplicare il numero degli occupati nel settore, in un periodo in cui tutto il mondo industrializzato vedeva calare la produzione e crescere la disoccupazione.
Meno noti fuori dall'Urss erano i costi umani e politici di quell'impresa. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne. E pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani quinquennali - un clima di esaltazione collettiva, ma anche di sospetto e di repressione giustificata con l'esigenza di colpire i "sabotatori" - era il più adatto ad accentuare i tratti autoritari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin.
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