27.4 Il fascismo e l'economia. La "battaglia del grano" e "quota novanta"
Tutti i movimenti fascisti si presentarono fin dai loro esordi come portatori di soluzioni nuove e originali per i problemi dell'economia e del lavoro (la famosa "terza via" fra capitalismo e socialismo). Il fascismo italiano credette di individuare la sua "terza via" nella formula del corporativismo. L'idea corporativa affondava le sue radici addirittura nel Medioevo, nell'esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, che aveva ispirato già nell'800 il pensiero sociale cattolico; ma si nutriva anche di suggestioni provenienti dal nazionalismo e dallo stesso sindacalismo rivoluzionario. In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Questo sistema non trovò mai vera attuazione. Per molti anni le corporazioni restarono un puro progetto. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti (statali, parastatali, partitiche, sindacali). Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti nell'economia, a creare enti e istituzioni di nuova concezione che in gran parte sopravvissero alla sua caduta. Ma non inventò un nuovo sistema economico. E non mantenne nemmeno, nel corso del ventennio, una linea di politica economica coerente e riconoscibile.
Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò, come già abbiamo visto, una linea liberista e "produttivista", volta cioè a rilanciare la produzione incoraggiando l'iniziativa privata e allentando i controlli statali. Questa linea provocò però, assieme a un consistente incremento produttivo, un riaccendersi dell'inflazione, un crescente deficit nei conti con l'estero e un forte deterioramento del valore della lira, il cui rapporto di cambio con la sterlina scese a livelli mai toccati in passato (fino a 145 lire per una sterlina). Con l'estate 1925, la politica economica del governo subì una brusca svolta: il ministro delle Finanze De Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi, industriale e finanziere veneziano, che inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell'economia.
Primo importante provvedimento in questo senso fu, nel '25, l'inasprimento del dazio sui cereali: una misura che si inseriva in una tendenza di lungo periodo (cominciata, come si ricorderà, col 1887) volta a favorire il settore cerealicolo, ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta battaglia del grano, dove gli accenti ruralisti si mescolavano ai toni guerrieri. Scopo della battaglia, che si sarebbe protratta lungo tutto il corso del regime, era il raggiungimento dell'autosufficienza nel settore dei cereali, sia attraverso l'aumento della superficie coltivata a grano, sia mediante l'impiego di tecniche più avanzate (col che si intendeva anche favorire le industrie produttrici di concimi e macchine agricole). Lo scopo fu in buona parte raggiunto: alla fine degli anni '30 la produzione di grano era aumentata del 50% e le importazioni si erano ridotte a un terzo rispetto a quindici anni prima. Ma il prezzo fu ancora una volta il sacrificio di altri settori, come l'allevamento (danneggiato dalla riduzione dei pascoli) e le colture "specializzate" (in particolare quelle ortofrutticole) rivolte all'esportazione.
La seconda "battaglia" impostata dal binomio Mussolini-Volpi fu quella per la rivalutazione della lira. Nell'agosto '26 il duce annunciò di voler riportare in alto il corso internazionale della moneta e fissò l'obiettivo, da molti ritenuto irrealistico, di quota novanta (ossia 90 lire per una sterlina). Alla base di questa scelta c'era soprattutto il desiderio di dare al paese un'immagine di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i ceti medi risparmiatori. L'obiettivo di "quota novanta" fu raggiunto in poco più di un anno, in virtù di una serie di provvedimenti che limitavano drasticamente il credito, e con l'aiuto di un cospicuo prestito concesso allo Stato italiano da grandi banche statunitensi. I prezzi interni diminuirono per effetto della politica deflazionistica e del minor costo delle importazioni (conseguenza della rivalutazione della moneta) e la lira recuperò il potere d'acquisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori dipendenti, che si videro tagliare stipendi e salari in misura più che proporzionale. La produzione agricola e industriale subì una certa flessione. Furono colpite soprattutto le industrie che lavoravano per l'esportazione (danneggiate dalla sopravvalutazione della lira che rendeva poco competitivi i loro prodotti), mentre quelle che operavano sul mercato interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro, degli sgravi fiscali concessi dal governo e di un forte aumento delle commesse pubbliche. Tutto questo avvantaggiò soprattutto le grandi imprese e favorì i processi di concentrazione aziendale. Qualcosa di analogo si verificò in agricoltura, dove la politica monetaria del regime - che pure dichiarava di voler incoraggiare la piccola proprietà - finì col mettere in crisi molte piccole e medie aziende che si erano formate nei primi anni '20 e che furono strozzate dalla restrizione del credito, oltre che dal calo generalizzato dei prezzi agricoli.
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