27.6 L'imperialismo fascista e l'impresa etiopica
Nel movimento fascista fu sempre presente, fin dalle origini, una forte componente nazionalistica. Tale componente era profondamente connaturata all'ideologia e alla prassi del fascismo, che doveva parte del suo successo al fatto di presentarsi come il paladino della riscossa nazionale e che, una volta giunto al potere, continuò a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica e a servirsi della propaganda nazional-patriottica come strumento essenziale di aggregazione del consenso. Diversamente dalla Germania, sconfitta in guerra e mutilata al tavolo della pace, l'Italia fascista non aveva però da avanzare rivendicazioni territoriali plausibili, capaci di mobilitare l'opinione pubblica. Nonostante le delusioni subite a Versailles, l'Italia era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente l'intricata questione adriatica.
Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e spesso contraddittorie e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica contestazione dell'assetto uscito dai trattati di Versailles: dunque appoggio alle velleità revisioniste dei paesi insoddisfatti (come Ungheria e Austria); polemica ricorrente contro le democrazie "plutocratiche", contrapposte, secondo una formula già cara ai nazionalisti, all'Italia "proletaria", ricca di popolazione ma povera di risorse; richiesta, mai precisata nei dettagli, di un nuovo equilibrio mediterraneo più favorevole all'Italia. Tutto ciò contribuì a rendere più tesi i rapporti con la Francia (già difficili anche a causa dell'ospitalità offerta dalla vicina Repubblica agli esuli antifascisti); ma non impedì all'Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna - secondo una linea tradizionale della politica estera italiana - e di restare, nel complesso, all'interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull'accordo fra le potenze vincitrici della guerra. L'accordo di Stresa dell'aprile 1935 (
26.9) fu la manifestazione più significativa di questa fase della politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima. Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico grosso Stato indipendente del continente africano.
A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità, e che presentava costi economici e umani sproporzionati ai possibili vantaggi concreti, furono motivi di politica interna e internazionale. Con la guerra d'Etiopia Mussolini intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subito dall'Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua e mostrando che il suo regime poteva riuscire là dove la classe dirigente liberale aveva fallito. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economico-sociali del paese (in particolare la disoccupazione, che si manteneva su livelli piuttosto alti). Mussolini pensava inoltre di poter sfruttare la favorevole congiuntura diplomatica creata dalla politica hitleriana, che rendeva l'amicizia dell'Italia più preziosa che in passato per le potenze occidentali. In effetti i governi francese e inglese - soprattutto il primo - erano disposti ad assecondare, almeno in parte, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, per giunta membro della Società delle nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Né potevano ignorare il fatto che in Gran Bretagna e in Francia si era creata una forte corrente di opinione pubblica in difesa dell'indipendenza etiopica.
Così, quando ai primi dell'ottobre 1935 l'Italia diede inizio all'invasione dell'Etiopia senza nemmeno farla precedere da una dichiarazione di guerra, i governi francese e inglese non poterono fare a meno di condannare ufficialmente l'azione e di proporre al Consiglio della Società delle nazioni l'adozione di sanzioni consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all'industria di guerra. Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione, le sanzioni ebbero un'efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania. Queste decisioni ebbero però l'effetto di approfondire il contrasto fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare un'imponente campagna propagandistica tesa a presentare l'Italia come vittima di una congiura internazionale.
L'immagine dell'Italia proletaria cui le nazioni plutocratiche, già padrone di sterminati imperi coloniali, volevano impedire la conquista di un proprio "posto al sole" riuscì in effetti a far breccia nell'opinione pubblica italiana, non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto intravedere il miraggio di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da conquistare oltremare. Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni antiinglesi. Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l'invito del governo di donare alla patria l'oro delle loro fedi nuziali. Anche alcuni noti antifascisti, fra cui Benedetto Croce, si sentirono in dovere di esprimere solidarietà alla nazione in guerra. Il paese fu percorso da un'ondata di imperialismo popolaresco, ben più ampia di quella che aveva accompagnato, un quarto di secolo prima, la spedizione in Libia. Gli organi di informazione fecero a gara nel denigrare la resistenza degli etiopici, riproponendo l'equazione fra popoli di colore e selvaggi e solleticando gli istinti inconsciamente razzisti del pubblico. Ma non mancò neppure il tentativo di assegnare alla guerra scopi umanitari, presentandola come una crociata per liberare la popolazione etiopica da un regime corrotto e schiavista.
In realtà gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailé Selassié. Ma il loro esercito, male organizzato e peggio equipaggiato (molti soldati non disponevano nemmeno di armi da fuoco), nulla poteva contro un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400.000 uomini e fece ampio ricorso ai mezzi corazzati e all'aviazione (usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con gas asfissianti). Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti "il ritorno dell'Impero sui colli fatali di Roma" e offrire al sovrano la corona di imperatore d'Etiopia.
Da un punto di vista economico, la conquista dell'Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l'Italia un peso non indifferente, aggravato dai problemi suscitati dalle sanzioni (poco efficaci militarmente, ma dannose per il commercio) e non compensato dai temporanei benefici arrecati all'industria dalla produzione bellica. Ma sul piano politico il successo fu clamoroso e indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell'estate del '36 e, successivamente, Gran Bretagna e Francia riconobbero l'Impero italiano in Africa orientale), Mussolini diede a molti la sensazione di aver conquistato per l'Italia uno status di grande potenza. In realtà, si trattava di una sensazione illusoria: l'Italia, infatti, non era in grado di affrontare uno scontro con una vera grande potenza e aveva potuto "tirare diritto" (secondo l'espressione mussoliniana) nella questione abissina solo perché gli inglesi, pronti a mobilitarsi a parole per sostenere il buon diritto dell'Etiopia, non avevano alcuna intenzione di affrontare una guerra per difenderla.
Mussolini era consapevole di tutto questo. Ma, inebriato dal successo etiopico, credette ugualmente di poter condurre una politica adeguata a una grande potenza, sfruttando ogni occasione (vedi il caso della Spagna) per allargare l'area di influenza italiana giocando sulla rivalità fra tedeschi e franco-inglesi. In questo gioco doveva rientrare, almeno in un primo tempo, anche il riavvicinamento dell'Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d'Etiopia e sancito, nell'ottobre 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di
Asse Roma-Berlino. Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e, nell'autunno '37, dalla adesione italiana al cosiddetto Patto anticomintern (un accordo stipulato l'anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a lottare contro il comunismo internazionale), l'Asse Roma-Berlino non assunse tuttavia, nonostante le pressioni tedesche, la forma di una vera alleanza militare. Mussolini considerava infatti l'avvicinamento alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto come un mezzo di pressione sulle potenze occidentali, come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale dell'Italia, le consentisse di lucrare qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di forza. Ma il dinamismo aggressivo della Germania era tale da non consentire a Mussolini i tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire dell'amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler (comprese quelle più sgradite come l'annessione dell'Austria). Finché, nel maggio 1939, privato di ogni margine d'azione, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania (il patto d'acciaio) che legava definitivamente le sorti dell'Italia a quelle dello Stato nazista.
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