27.7 L'Italia antifascista
A partire soprattutto dagli anni 1925-26 - quando il dissenso politico fu proibito non solo in via di fatto, ma anche a termini di legge - un numero crescente di italiani dovette affrontare il carcere o il confino politico, l'esilio o la clandestinità. Non tutti coloro che nutrivano sentimenti antifascisti, o che avevano svolto attività di opposizione nel periodo in cui si costruiva la dittatura, sperimentarono i rigori della repressione. Molti, anzi i più, si appartarono in volontario silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spazi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si trasformassero in centri di opposizione politica.
Fu questa la strada scelta da quasi tutti gli ex popolari, dalla maggioranza dei liberali non fascistizzati e anche da molti socialisti. Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio da parte di una Chiesa alleata sì del fascismo, ma non al punto da interrompere ogni contatto con i vecchi militanti del Ppi, i liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime (preoccupato dei danni che sarebbero derivati alla sua immagine da un intervento repressivo), l'anziano filosofo poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica. Grazie ai suoi libri e alla sua rivista "La Critica", che continuò a stamparsi per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e mantenere in vita la tradizione dell'idealismo liberale (contrapposta a quella idealistico-totalitaria impersonata da Gentile): anche se questa attività in tanto fu possibile in quanto rinunciava ad ogni aperto sconfinamento nel campo della politica.
Per coloro che intendevano opporsi attivamente al fascismo, restavano aperte solo due strade: l'esilio all'estero e l'agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall'inizio quest'ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusivamente, i comunisti: gli unici preparati all'attività cospiratoria, sia per le caratteristiche della loro struttura organizzativa, sia perché erano stati oggetto per primi di una repressione sistematica da parte delle autorità. Durante tutto il ventennio, il Pci riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall'interno e dall'estero una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati immediati e gli altissimi rischi cui andavano soggetti i militanti: più di tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10.000 confinati fra il '26 e il '43 furono infatti comunisti.
Anche gli altri gruppi antifascisti (socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberal-democratici che avevano raccolto l'eredità di Amendola e Gobetti) cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse quasi esclusivamente all'estero, soprattutto in Francia, già sede di una numerosa comunità italiana, dove molti esponenti antifascisti (fra cui i vecchi capi del socialismo italiano come Turati e Treves e i leader della generazione più giovane come Nenni e Saragat) si erano rifugiati fra il '25 e il '27 e dove i due partiti socialisti, quello repubblicano e la Confederazione del lavoro ricostituirono i loro organi dirigenti. Nel 1927 questi gruppi si federarono in un'organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista, che si ricollegava all'esperienza dell'Aventino, ereditandone, con il contenuto ideale, anche i limiti pratici e le divisioni interne. Nonostante questi limiti, i partiti della Concentrazione svolsero un'attività importante a livello di testimonianza e di propaganda, mantennero i contatti con l'emigrazione di lavoro in Francia, fecero sentire la voce dell'Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono i loro giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili fattori di una riscossa democratica. Di particolare interesse fu il dibattito autocritico che vide impegnati i socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a Parigi, alla riunificazione dei due tronconi in cui il Psi si era diviso nel '22.
Un nuovo impulso all'azione concreta contro il fascismo e un'aperta critica alla tattica "attesista" della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia e Libertà (in sigla GL), fondato nell'estate del '29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio Lussu e Carlo Rosselli (che nel '37 sarebbe stato assassinato da sicari fascisti assieme al fratello Nello). GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta sul tipo del Partito d'azione mazziniano, capace di far concorrenza ai comunisti sul piano dell'attività clandestina (infatti riuscì a costituire piccoli nuclei organizzati in varie città); ma si proponeva anche come punto di raccordo fra socialisti, repubblicani e liberali, come nucleo di una nuova formazione che sapesse coniugare gli ideali di libertà politica e di giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberalismo e marxismo, secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo liberale.
Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione, ma altrettanto ostili ai tentativi di GL, erano i comunisti, presenti anche loro nell'emigrazione ma attestati, fino al '34-'35, su una posizione di orgoglioso isolamento. Anche i comunisti avevano un "centro estero" con sede a Parigi: ma esso dipendeva strettamente dai dirigenti che risiedevano a Mosca, a contatto con i vertici dell'Internazionale comunista. Palmiro Togliatti, il leader che aveva preso il posto di Gramsci (arrestato nel '26) e che guidò con notevole abilità il partito negli anni dell'esilio e della clandestinità, era anche un dirigente di primo piano del Comintern. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fedelmente anche le formulazioni più settarie (come quelle relative al "socialfascismo"), che si adeguasse all'imperante culto di Stalin. I dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da leader come Terracini e Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente sconosciute rimasero le originali riflessioni sulla storia d'Italia, sul ruolo degli intellettuali e sulla strategia del partito formulate, sempre in carcere, da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che sarebbero stati pubblicati nel secondo dopoguerra, molti anni dopo che il loro autore si era spento, nel 1937, stroncato dalla dura esperienza carceraria.
A metà degli anni '30, la svolta dei fronti popolari inaugurò anche per l'antifascismo italiano una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze d'opposizione, partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel '34 un patto di unità d'azione con i socialisti. Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l'esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni. Il fallimento del Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, gli echi delle grandi purghe staliniane, la rottura fra l'Urss e le democrazie occidentali culminata, come vedremo più avanti, nel patto tedesco-sovietico del '39: tutti questi fatti si ripercossero negativamente sull'unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato e diviso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scarsi successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza sulla situazione italiana di quegli anni fu poco più che nulla. Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare che abbattesse il regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla grande crisi e dall'avventura etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo era uscito rafforzato dall'una e dall'altra. Quando infine scoppiò la guerra, si trovarono nella difficile posizione di chi è costretto ad augurarsi la sconfitta del proprio paese; e solo nell'ultima fase del conflitto, a disfatta ormai avvenuta, ebbero l'occasione di combattere il fascismo con le armi e sul suolo italiano. Eppure il movimento antifascista svolse, fra il '26 e il '43, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale. Testimoniò con la sua sola presenza l'esistenza di un'Italia che non si piegava al fascismo e ad essa diede voce e rappresentanza politica; rese possibile il sorgere, dopo il '43, di un movimento di resistenza armata al nazifascismo (movimento che invece mancò del tutto in Germania); anticipò con le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti molti tratti della futura Italia democratica: un'Italia che gli antifascisti non sempre seppero immaginare quale poi sarebbe stata in realtà, ma che certo contribuirono più d'ogni altro a rifondare.
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