29.11 La "grande alleanza" e la campagna d'Italia. La caduta del fascismo e l'8 settembre
Trovatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che per propria volontà, gli anglo-americani e i sovietici si posero subito il problema di elaborare una strategia comune per battere le potenze fasciste. Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a Washington fra il dicembre '41 e il gennaio '42, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro il Tripartito (oltre ai "tre grandi" - Usa, Urss e Gran Bretagna - c'erano anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappresentanti di Stati occupati dai tedeschi) sottoscrissero il patto detto delle Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tener fede ai princìpi della Carta atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.
L'impegno comune non bastava però a cancellare né le divergenze ideologiche né i contrasti strategici. Il contrasto più grave riguardava i tempi e i modi con cui procedere all'apertura di un secondo fronte in Europa. Stalin lo avrebbe voluto subito, possibilmente nell'Europa del Nord, per alleggerire la pressione tedesca sull'Urss. Churchill voleva prima chiudere la partita in Africa e pensava a un successivo sbarco nell'Europa meridionale. Prevalse alla fine il punto di vista inglese. Nella conferenza di Casablanca in Marocco (gennaio 1943) inglesi e americani decisero che, una volta chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe avvenuto in Italia, considerata l'obiettivo più facile sia per motivi logistici (la vicinanza della Sicilia alle coste della Tunisia), sia per ragioni politico-militari (lo stato di crisi in cui versavano le forze armate italiane e lo stesso regime fascista). Nella stessa conferenza, con una decisione di portata storica che serviva soprattutto a rassicurare i russi sulla serietà dell'impegno alleato, gli anglo-americani si accordavano sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di sorta con la Germania o con i suoi alleati.
La campagna d'Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell'isola di Pantelleria. Un mese dopo (10 luglio) i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell'isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell'inevitabilità della sconfitta. Anche la popolazione locale non oppose alcuna resistenza e spesso accolse gli alleati come liberatori.
Lo sbarco anglo-americano rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista che, screditato da un'incredibile serie di insuccessi militari, vedeva già da tempo moltiplicarsi al suo interno i segni di malcontento e di crisi. Un sintomo allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai che, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. La prima vera protesta di massa del periodo fascista era il sintomo di un diffuso disagio popolare legato al caro-vita, all'acuirsi dei disagi alimentari, agli effetti dei bombardamenti aerei alleati che, nell'inverno '42-'43, avevano colpito sempre più frequentemente le città italiane; ma era anche il risultato di una ripresa delle forze antifasciste, in particolare dei comunisti.
A determinare la caduta di Mussolini non furono però le proteste popolari, né le iniziative dei partiti antifascisti, ancora sconosciute alla maggioranza della popolazione. Fu invece una sorta di congiura che faceva capo alla corona - unica fonte di potere formalmente indipendente dal fascismo - e vedeva tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi dell'ala monarchico-conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto formale per l'intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l'approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che invitava il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate e suonava quindi come esplicita sfiducia nei confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo
Pietro Badoglio, ex comandante delle forze armate.
L'annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili manifestazioni di esultanza. La gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. Non vi fu spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista, che per vent'anni aveva riempito la scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla con tutte le sue mastodontiche organizzazioni collaterali, prima ancora che Badoglio provvedesse a scioglierlo d'autorità. Quello del fascismo fu un crollo repentino e inglorioso, spiegabile in parte con le debolezze interne di un apparato privo di autonomia e di iniziativa politica, in parte col discredito che negli anni di guerra si era accumulato sul regime e sul suo capo.
L'entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo era dovuto non tanto alla gioia per la riconquistata libertà, quanto alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. L'uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l'Italia più tragica di quanto non fosse stata la guerra stessa. I tedeschi, che già avevano inviato in Italia forti contingenti di truppe per contrastare l'avanzata alleata, si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defezione. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell'impegno bellico italiano. Ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati per giungere a una pace separata. Con gli anglo-americani, legati all'impegno della "resa incondizionata", c'era però ben poco da trattare. Quello che i negoziatori italiani dovettero sottoscrivere fu appunto un atto di resa senza nessuna garanzia per il futuro. Firmato il 3 settembre, l'armistizio fu reso noto solo l'8 settembre, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.
L'annuncio dell'armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio radiofonico, gettò l'Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano a una sistematica occupazione di tutta la parte centro-settentrionale dell'Italia. Abbandonate a se stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Roma, nei cui pressi erano dislocate alcune fra le migliori unità, fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di civili armati (gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo, furono il primo episodio della Resistenza italiana). Ben 600.000 furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Molti soldati fuggirono cercando di tornare alle loro case. Gli episodi di aperta resistenza, che pure non mancarono, furono puniti dai tedeschi con veri e propri massacri.
Le conseguenze del disastro dell'8 settembre si ripercossero anche sull'andamento della campagna d'Italia. Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta alla foce del Sangro (poco a sud di Pescara) e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l'offensiva alleata fino alla primavera dell'anno successivo. Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, per la prima volta dopo le guerre napoleoniche, l'Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria.
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