30.6 L'Unione Sovietica e le "democrazie popolari"
La vittoria in guerra non portò in Urss ad alcun allentamento del dispotismo interno. Al contrario, lo stalinismo rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l'Occidente accentuando i suoi connotati autocratici e repressivi. Il prestigio carismatico e la popolarità di Stalin, oggetto di autentica venerazione da parte dei suoi compatrioti, non diminuirono la sua ossessiva paura di complotti e tradimenti, né la sua determinazione a combattere ogni forma di deviazionismo, avvalendosi della capillare attività della polizia segreta, guidata da Lavrentij Beria. I quadri del partito e delle forze armate furono drasticamente epurati. I condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora più soffocanti. L'intera vita nazionale fu subordinata alle esigenze di una ricostruzione attuata senza aiuti esterni, in un clima di aspro conflitto con l'Occidente.
In realtà gli apporti di capitale straniero vennero ugualmente, sotto forma di riparazioni imposte ai paesi ex nemici controllati dall'Armata rossa. Il prelievo di risorse finanziarie, di derrate agricole, di macchinari, impianti e mezzi di locomozione fu ingente: non solo dalla Germania dell'Est, ma anche da Ungheria, Romania e Cecoslovacchia. La ricostruzione economica sovietica fu comunque molto rapida. Nel 1950 la produzione industriale aveva superato di ben il 70% il livello del '40. Ancora una volta la priorità andò all'industria pesante, a scapito dell'agricoltura e del settore dei beni di consumo. La novità stava nel progressivo spostamento dell'asse industriale verso est, cioè verso gli Urali e le regioni asiatiche dove, per le esigenze belliche, era già stata trasferita gran parte delle industrie e della relativa manodopera. Già nel '50 gli Urali e la Siberia fornivano oltre la metà del carbone e dell'acciaio dell'Urss.
Sacrificando il tenore di vita della sua popolazione, l'Unione Sovietica era comunque diventata una grande potenza industriale nonché uno dei massimi produttori mondiali di materie prime e di energia. Ed era diventata anche una grande potenza militare. Lo sviluppo tecnologico, orientato selettivamente verso gli impieghi bellici, non rimase senza risultati: nel 1949 l'Urss fece esplodere la sua prima bomba atomica, ponendo così fine al monopolio nucleare americano.
Sul terreno della politica estera, il maggior successo dell'Unione Sovietica in questo periodo fu la trasformazione dei paesi dell'Europa orientale occupati dall'Armata rossa durante la guerra in altrettante democrazie popolari: una formula che mascherava l'imposizione a quei paesi di un sistema politico e sociale in tutto e per tutto simile a quello vigente in Urss e la loro riduzione al ruolo di satelliti della potenza egemone. L'operazione, che si compì nel giro di pochi anni, rispondeva, come già si è visto, soprattutto all'esigenza dell'Unione Sovietica di assicurarsi una cintura protettiva intorno ai suoi confini europei.
Le vicende della Polonia ebbero in questo senso un valore emblematico. Gli inglesi - che erano entrati in guerra, nel '39, proprio per la Polonia - consideravano la difesa dell'indipendenza polacca come un punto d'onore. Ma per Stalin la Polonia rappresentava innanzitutto un problema di sicurezza, giacché era stata, per due volte in trent'anni, la via maestra attraverso cui eserciti invasori erano entrati in Russia. Era quindi indispensabile che a Varsavia si costituisse un governo "amichevolmente disposto" nei confronti dell'Urss. Su questo Stalin fu irremovibile ed ebbe infine partita vinta. Nel giugno 1945, a seguito di accordi interalleati, si insediò a Varsavia un governo presieduto dal socialista Morawski, ma in realtà controllato dai comunisti. Questi si impadronirono gradualmente dei principali centri di potere e, nell'imminenza delle elezioni del gennaio '47, ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Le elezioni si svolsero sotto il controllo dei comunisti e si risolsero in una loro schiacciante vittoria, dando il via a una sistematica campagna di liquidazione delle altre forze politiche.
Non molto diverso fu il corso degli eventi in Romania e in Bulgaria. Particolarmente tenaci furono le resistenze opposte dalle forze non comuniste in Ungheria, soprattutto dal Partito dei contadini che aveva ottenuto il 60% dei voti nelle elezioni del novembre '45. Fin dal '46, tuttavia, i comunisti, che per imposizione sovietica controllavano il ministero degli Interni, iniziarono una campagna di arresti e intimidazioni contro i loro avversari e riuscirono a modificare in parte il rapporto di forze nelle elezioni dell'agosto '47. Da allora il processo di sovietizzazione del paese si accelerò, per culminare nelle elezioni a lista unica del maggio '49.
Ancora più drammatico, e più direttamente legato al crescere della tensione fra i due blocchi, fu il destino della Cecoslovacchia, paese economicamente e socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera seguiva una linea non ostile all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto il 38% dei suffragi nelle libere elezioni del maggio '46. Il governo formatosi a seguito delle elezioni era guidato dal leader comunista Klement Gottwald e si fondava sull'alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe però all'inizio del '48, quando si trattò di decidere circa l'accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dai socialisti e dalle forze borghesi e osteggiata dai comunisti. Per imporre il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, provocando le dimissioni di dodici ministri (febbraio '48) e costringendo, sotto la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Edvard Beneš ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. In marzo, il ministro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l'unica personalità non comunista del nuovo ministero, morì cadendo dalla finestra in circostanze mai chiarite. Nel maggio 1948, le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il presidente Beneš si dimise per non dover firmare la nuova costituzione che trasformava definitivamente il paese in una "democrazia popolare".
La presa del potere da parte dei comunisti si compì invece senza eccessivi problemi in Albania e soprattutto in Jugoslavia: qui i comunisti, sotto la guida di Tito, si imposero da soli al governo del paese, con l'autorità e il prestigio guadagnati durante la Resistenza, che aveva permesso di liberare il territorio nazionale a prescindere dall'aiuto dell'Armata rossa. Ciò conferì alla linea dei comunisti jugoslavi un carattere gelosamente nazionale e una certa autonomia dalle direttive di Stalin.
L'imposizione, più o meno forzata, del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze profonde sugli assetti socio-economici dell'Europa orientale. In molte di quelle che erano fra le regioni più arretrate del continente si ebbe un inizio di modernizzazione e di relativo decollo economico. I latifondisti furono spazzati via fin dalle prime riforme agrarie, cui fece rapidamente seguito la collettivizzazione dell'agricoltura. Il ceto contadino si ridusse sensibilmente, in parallelo all'espansione di quello operaio. Fra il '46 e il '48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l'intero settore commerciale. Furono lanciati i primi piani di sviluppo, basati sul modello sovietico, che assegnava la priorità all'industria pesante, relegando l'agricoltura in una posizione subalterna. Soprattutto nei primi anni, la crescita produttiva fu notevole, con incrementi medi superiori al 10% annuo.
Questo sviluppo fu però condizionato, e in qualche modo distorto, dalla subordinazione delle economie dei paesi "satelliti" a quella dello "Stato-guida". Gli obiettivi di produzione furono scelti in modo da risultare complementari a quelli dell'Urss. I tassi di cambio all'interno dell'"area del rublo", nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati furono rigidamente regolati, attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio '49 con l'adesione di tutti i paesi del blocco orientale. Inoltre, le caratteristiche del modello di sviluppo imposto ai paesi dell'Europa dell'Est comportavano una forte compressione dei consumi e del tenore di vita della popolazione. Tutto questo non avrebbe certo giovato alla popolarità dei regimi comunisti e avrebbe contribuito non poco a far nascere agitazioni sociali e moti di rivolta antisovietica (che paradossalmente avrebbero avuto per protagonista proprio il ceto operaio cresciuto con la collettivizzazione). Per conservare e tenere unito il suo "impero", l'Urss avrebbe quindi dovuto esercitare un controllo molto stretto sui paesi "satelliti", sia sul terreno dei rapporti diplomatici e militari, sia (attraverso il Cominform) su quello delle relazioni fra i partiti comunisti.
L'unico fra i regimi dell'Est europeo che cercò, con successo, di sottrarsi all'egemonia sovietica fu quello jugoslavo. La rottura si consumò nel 1948: l'Urss sospese dapprima ogni collaborazione economica, quindi, in giugno, condannò ufficialmente i comunisti jugoslavi, accusandoli di "deviazionismo" e di collusione con l'imperialismo ed escludendoli dal Cominform. Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin), ma sostenuta dall'appoggio compatto della popolazione, la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull'equidistanza fra i due blocchi, e un nuovo originale corso in politica interna, volto alla ricerca di un equilibrio fra statalizzazione ed economia di mercato. Il "modello jugoslavo" (che avrebbe preso forma definitiva negli anni '60, con una serie di ampie riforme economiche) si basava sull'autogestione delle imprese da parte delle direzioni aziendali e dei consigli di fabbrica e sulla loro reciproca concorrenza in un sistema di prezzi liberi. Esso ha rappresentato a lungo, nonostante le molte difficoltà incontrate, il più radicale esperimento di revisione del modello collettivistico emerso nei paesi dell'Europa dell'Est.
Nell'immediato, lo scisma jugoslavo provocò per reazione una stretta repressiva estesa a tutto il mondo comunista. Per evitare che l'eresia di Tito trovasse nuove adesioni, furono attuate, tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, massicce "purghe" nei confronti dei dirigenti comunisti dell'Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. I processi di quegli anni furono una drammatica replica del copione già sperimentato in Unione Sovietica con le "grandi purghe" del periodo prebellico: arresti arbitrari, inverosimili accuse di tradimento o di altri crimini, corroborate da confessioni estorte con la tortura, condanne pesantissime, anche alla pena capitale.
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