31.6 L'emancipazione dell'Africa nera
Nell'Africa a sud del Sahara, il processo di decolonizzazione fu più tardivo rispetto a quello della regione mediterranea, ma, una volta innescato, fu anche più rapido e meno conflittuale. Alla fine degli anni '50, le potenze europee avevano rinunciato a contrastare quel processo, che appariva ormai inarrestabile - soprattutto dopo la vittoriosa conclusione delle lotte per l'indipendenza in Asia, in Medio Oriente e nel Maghreb - e si erano anzi risolte ad assecondarlo.
La grande stagione dell'emancipazione africana si aprì nei territori britannici nel 1957, con l'indipendenza del Ghana (l'antica Costa d'oro), dove si era affermato un forte movimento nazionalista guidato da Nkwame Nkrumah. Fra le colonie francesi, la prima ad affrancarsi fu la Guinea, sotto la guida di Seku Turè, nel 1958. Nel 1960, in quello che fu chiamato "l'anno dell'Africa", ottennero l'indipendenza ben diciassette nuovi Stati: fra questi la Nigeria, il Congo belga (poi ribattezzato Zaire), il Senegal e la Somalia (dove era scaduto il mandato assegnato all'Italia).
Complessivamente, il processo ebbe carattere pacifico e spesso fu pilotato dalle stesse potenze europee, che riuscirono così a mantenere con le ex colonie importanti legami economici e culturali. Il cammino verso l'indipendenza fu però più lento e travagliato dove erano in gioco interessi più forti o dove più consistente era la presenza dei coloni bianchi. Il Kenya, prima di raggiungere l'indipendenza nel 1963, fu insanguinato dalla feroce campagna terroristica condotta dalla setta dei Mau-Mau e da un'altrettanto spietata repressione da parte degli inglesi. Nella Rhodesia del Sud, la minoranza bianca (il 7% della popolazione), per difendere le sue posizioni, non esitò a rompere con la Gran Bretagna: nel 1965 il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l'indipendenza e l'uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980, dopo quindici anni di lotte, il paese fu restituito alla maggioranza indigena e prese il nome di Zimbabwe.
Ultima roccaforte del potere bianco nel continente rimase l'Unione Sudafricana, dove, negli anni '50 e '60, fu addirittura inasprito il regime di apartheid (cioè di separazione e di discriminazione nella residenza, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni) ai danni della maggioranza nera della popolazione. Né la condanna della comunità internazionale né le ricorrenti rivolte della gente di colore - come quella del "ghetto" nero di Soweto, nel 1976 - riuscirono a intaccare il monopolio politico della minoranza bianca: circa 5 milioni di persone fra anglofoni e boeri (
15.7), contro oltre 20 milioni di neri. Uno spiraglio si è aperto solo alla fine degli anni '80, quando il premier Frederik de Klerk ha varato alcune misure di attenuazione dell'apartheid ed ha aperto negoziati col leader storico del movimento antisegregazionista, Nelson Mandela, liberato dal carcere nel febbraio 1990. Una soluzione pacifica del contrasto è però resa problematica sia dall'entità della posta in gioco (il Sud Africa è uno dei massimi produttori mondiali di materie prime "strategiche" come l'uranio, oltre che di oro e di diamanti), sia dai contrasti politici e tribali in seno alla maggioranza nera, sia infine dalla consistenza della comunità bianca, soprattutto di quella boera, presente da tre secoli nel paese e dunque portata a considerarlo come la propria vera patria.
Un caso di decolonizzazione particolarmente drammatica e cruenta fu quello del Congo, lasciato dalla dominazione belga in condizioni di spaventosa arretratezza. L'indipendenza, concessa nel 1960 senza alcuna preparazione politica e istituzionale, si accompagnò a una sanguinosa guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga, fomentato e appoggiato con l'invio di mercenari dalle compagnie di sfruttamento belghe. Il capo del governo congolese e leader del movimento indipendentista, il nazionalista di sinistra Patrice Lumumba, fu fatto prigioniero e ucciso dai secessionisti. L'unità del paese - dove si affermò un regime militare guidato dal generale Mobutu - fu faticosamente ristabilita solo con l'intervento di truppe delle Nazioni Unite.
Sia pure in forma estrema, il conflitto nel Congo fu emblematico delle contraddizioni e dei contrasti (etnici, tribali, politici e religiosi) che attraversarono l'Africa all'indomani di una decolonizzazione rapida e apparentemente indolore. Basti ricordare, in Nigeria, la sanguinosa repressione del tentativo secessionista del Biafra, fra il '66 e il '68, e le lotte degli indipendentisti eritrei contro il governo etiopico, protrattesi e inaspritesi dopo il colpo di Stato che, nel 1974, rovesciò il vecchio imperatore Hailé Selassié, portando al potere i militari di sinistra capeggiati dal colonnello Menghistu.
Questi conflitti misero in drammatica evidenza l'intrinseca fragilità degli Stati africani e delle loro istituzioni. Per ottenere l'indipendenza, i leader nazionalisti avevano finito con l'accettare le frontiere e gli stessi apparati amministrativi ereditati dall'epoca coloniale. Del resto non esistevano facili alternative: il "panafricanismo" o altre ideologie come quella della "negritudine" teorizzata dal presidente senegalese Léopold Senghor o il "socialismo africano" rappresentato soprattutto dalla Tanzania di Julius Nyerere, se avevano svolto un ruolo di mobilitazione politica e ideale nella lotta per l'emancipazione, offrivano poco o nulla ai fini delle costruzioni nazionali nella nuova Africa. Rispetto alla frammentazione delle società tradizionali africane, l'organizzazione statale appariva come un principio di aggregazione più avanzato e consentì in effetti un significativo ridimensionamento del potere dei capi-tribù. D'altro canto era inevitabile che il tentativo di imporre strutture da Stato-nazione a popolazioni eterogenee per etnia e religione, lingua e tradizioni incontrasse difficoltà formidabili. Allo stesso modo, il ricalco delle istituzioni democratico-parlamentari europee, tentato soprattutto nelle ex colonie inglesi, non poteva essere che di breve durata. Nella maggioranza dei casi, infatti, nel giro di pochi anni questi istituti lasciarono il posto a regimi militari di stampo autoritario o decisamente dispotico (come la sanguinaria dittatura esercitata dall'ex caporale Idi Amin in Uganda fra il '71 e il '79).
All'instabilità politica si aggiungeva una condizione di grave debolezza economica, che rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industrializzati, attraverso aiuti economici non sempre disinteressati e rapporti commerciali fortemente squilibrati. Contro queste forme di neocolonialismo si fecero più forti, a partire dalla metà degli anni '60, le spinte a una decolonizzazione più radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall'Unione Sovietica. Paesi come la Tanzania (l'ex Tanganika), il Congo Brazzaville (ossia l'ex Congo francese) e il Benin (già Dahomey) scelsero la via della rottura con l'Occidente industrializzato, a favore di uno sviluppo basato sul mercato interno e interamente pilotato dallo Stato. A questo indirizzo si sono successivamente ispirati anche il regime etiopico di Menghistu e soprattutto l'Angola e il Mozambico, giunti all'indipendenza nel 1975, dopo una lunga lotta contro il dominio portoghese, e protagonisti di quella che è stata chiamata la "seconda decolonizzazione" africana.
La scelta del modello socialista non ha tuttavia risparmiato ai paesi che l'hanno effettuata gli stessi problemi di quelli che hanno mantenuto stretti legami con l'Occidente: povertà cronica e carestie, disgregazione sociale, emarginazione dal mercato mondiale. Stretta fra i problemi del sottosviluppo e la crisi delle istituzioni statali, l'Africa attuale appare ancora alla ricerca di una propria via alla modernizzazione.
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