33.3 La Cina di Mao: il contrasto con l'Urss e la "rivoluzione culturale"
Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, parallelamente allo stabilirsi di una sia pur precaria coesistenza fra Usa e Urss, si venne delineando un contrasto sempre più grave fra le due maggiori potenze comuniste: Unione Sovietica e Cina. All'origine della rottura c'era un intreccio di rivalità statuali e di divergenze politico-ideologiche che investivano sia le strategie internazionali sia le grandi scelte di politica interna. Mentre l'Urss si proponeva come garante di un ordine mondiale "bipolare", la Cina di Mao Tse-tung tendeva a contestare lo status quo internazionale, ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a porsi come guida dei paesi in via di sviluppo in lotta contro l'imperialismo. Mentre l'Urss intendeva mantener fermo il suo ruolo di Stato-guida e di unica superpotenza del campo socialista, la Cina rivendicava maggior peso sulla scena internazionale e maggior voce in capitolo sulle questioni di interesse comune. Mentre in Urss la destalinizzazione diede luogo a una sia pur timida apertura in senso "liberale", in Cina si assisté nello stesso periodo a una accentuazione dei tratti radicali e collettivistici del regime nato dalla rivoluzione del '49.
Trovatisi a governare un paese immenso e sovrappopolato, economicamente arretrato e devastato da decenni di guerre, i comunisti cinesi avevano dovuto sostenere un compito non meno difficile di quello affrontato nel '17 dai bolscevichi russi (rispetto ai quali avevano però il vantaggio di una più ampia base di consenso e di una concreta esperienza di governo locale). Nel corso degli anni '50 la Cina comunista aveva progressivamente nazionalizzato i settori industriale e commerciale e aveva compiuto uno sforzo notevole per dotarsi di una propria industria pesante, giovandosi dell'aiuto di numerosi tecnici sovietici. Nello stesso tempo aveva proceduto risolutamente alla collettivizzazione dell'agricoltura (dove erano occupati oltre tre quarti della popolazione), pur discostandosi dall'esperienza della Russia staliniana per un maggior rispetto dei caratteri rurali della società. Il regime comunista aveva dapprima, con la riforma agraria del 1950, redistribuito le terre fra i contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole. Quindi aveva incoraggiato, poi obbligato, le famiglie contadine a riunirsi in cooperative, di fatto controllate dalle autorità statali.
Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 20% annuo), molto meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l'onere di sfamare una popolazione in continuo aumento (oltre mezzo miliardo nel '49, quasi 600 milioni cinque anni dopo). Per promuovere in tempi brevi un rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del grande balzo in avanti e che avrebbe dovuto realizzarsi grazie a una generale razionalizzazione produttiva, ma soprattutto in virtù di un gigantesco sforzo di volontà collettivo. Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica, producendo in proprio quanto le era necessario (dunque anche le macchine e, in qualche caso, persino l'acciaio). L'intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto, anche nella sfera della vita privata, e mobilitata con una martellante campagna propagandistica, in una atmosfera simile a quella dei piani quinquennali sovietici.
L'esperimento si risolse però in un colossale fallimento: la produzione agricola diminuì, costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali. Un'altra conseguenza gravissima fu quella di far precipitare il contrasto con l'Urss. Già in aperta polemica con i cinesi sui temi della coesistenza pacifica e dei rapporti fra i partiti comunisti, i sovietici criticarono aspramente la linea del "grande balzo in avanti" e, fra il '59 e il '60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia cinese. Contemporaneamente, l'Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza nel campo nucleare (il che non avrebbe impedito alla Cina di far esplodere, nel '64, la sua prima bomba atomica).
Da allora la rottura fra le due potenze comuniste divenne sempre più esplicita. I sovietici accusarono i cinesi di "avventurismo" e di "settarismo", cercando, senza però riuscirvi, di ottenere una solenne condanna del maoismo da parte dell'intero movimento comunista internazionale. I cinesi replicarono con accuse di revisionismo, di acquiescenza all'imperialismo (giudicato invece da Mao come una "tigre di carta", ossia uno spauracchio da cui non bisognava farsi intimidire); e, in un crescendo di scambi polemici, giunsero a definire i dirigenti sovietici "nuovi zar" e a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia definiti nell'800. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati lungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria.
Il fallimento del "grande balzo in avanti" ebbe contraccolpi anche sul piano interno, dando spazio alle componenti più "moderate" e meno antisovietiche del gruppo dirigente comunista (rappresentate soprattutto dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi). Non disponendo di un controllo dell'apparato tale da consentirgli una rapida epurazione dei "moderati", Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, mobilitò contro i suoi avversari le generazioni più giovani, esortandole a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la "via capitalistica".
La mobilitazione culminò, fra il '66 e il '68, nella cosiddetta rivoluzione culturale: una rivolta giovanile apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all'"autentico" pensiero di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro, nel partito e negli organi di governo locale, gruppi di giovani guardie rosse, in maggioranza studenti, mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali, artisti e quadri d'azienda. L'intento era quello di provocare, in virtù dell'iniziativa di massa, un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva (di qui il nome di "rivoluzione culturale") e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo. Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidentale, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati alla rivoluzione culturale e al pensiero di Mao. Ma la rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare dai posti di responsabilità i dirigenti contrari alla linea maoista, a cominciare da Liu Shao-chi. A partire dal '68, lo stesso Mao Tse-tung cominciò a porre un freno al movimento da lui suscitato, che stava provocando profonde spaccature nella base comunista (soprattutto fra studenti e operai) e rischiava di gettare nel caos l'economia. Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da
Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del potere istituzionale.
Fu Chou En-lai ad avviare, all'inizio degli anni '70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava. Dal momento che i rapporti con l'Urss restavano pessimi, la nuova linea si tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita, nell'estate '72, da un viaggio del presidente americano Nixon a Pechino e dall'ammissione all'Onu della Cina comunista (che prese il posto occupato fin allora dalla Repubblica "nazionalista" di Chang Kai-shek). Nell'autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale e delfino designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente. Cominciava una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou En-lai (1976), in un radicale mutamento di rotta anche sul piano interno.
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