33.5 L'Urss e l'Europa orientale: la crisi cecoslovacca
Dopo l'allontanamento di Kruscёv, così com'era accaduto dopo la morte di Stalin, l'Unione Sovietica fu retta da una direzione collegiale formata da ex collaboratori del leader rimosso:
Leonid Breznev, che divenne segretario del Pcus, Aleksej Kossighin, che assunse la guida del governo, e Michail Suslov, che rappresentò la massima autorità in campo ideologico. Anche questa volta fu il segretario del partito a emergere sugli altri dirigenti e ad affermarsi come il leader indiscusso del paese. Il nuovo gruppo dirigente mutò profondamente lo stile della politica krusceviana (meno iniziative clamorose, meno dichiarazioni ottimistiche, minore enfasi sulla destalinizzazione), ma ne lasciò invariata la sostanza. Si accentuò, pur senza mai raggiungere i livelli di brutalità dell'era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì soprattutto gli intellettuali. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di autonomia, compensati però da un più stretto controllo del potere centrale sui singoli settori produttivi. I risultati non furono brillanti e l'Urss vide in questo periodo accentuarsi il suo distacco rispetto ai paesi occidentali.
In politica estera, non vi fu alcun miglioramento dei rapporti con la Cina. La linea della coesistenza con l'Occidente non fu mai messa in discussione, ma si accompagnò a una più decisa politica di riarmo che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita dei cittadini. Non si verificarono sostanziali mutamenti nemmeno nei rapporti con i paesi dell'Europa orientale. Solo la Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausescu, riuscì a conquistare una certa autonomia, sia sul piano delle scelte economiche sia su quello della politica internazionale. I dirigenti sovietici tollerarono la dissidenza rumena, che peraltro non metteva in discussione le strutture interne del regime. Ma si mostrarono intransigenti nei confronti del più ampio e interessante esperimento di liberalizzazione mai tentato fin allora in un paese del blocco sovietico: quello avviato in Cecoslovacchia all'inizio del '68 e culminato nella cosiddetta primavera di Praga.
Tutto cominciò nel gennaio '68, quando il segretario del partito, Antonín Novotný, un superstite dell'età staliniana, fu rimosso dalla sua carica e sostituito da
Aleksander Dubček, leader dell'ala innovatrice. Premuto da un'opinione pubblica in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubček spinse il processo di rinnovamento fino a limiti impensabili prima d'allora. Il "programma d'azione" varato in aprile dal Partito comunista cercava, infatti, di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l'introduzione di elementi di pluralismo economico e soprattutto politico (compresa la presenza di diversi partiti) e con la più ampia libertà di stampa e di opinione. Fra la primavera e l'estate del '68, la Cecoslovacchia visse in effetti una stagione di radicale rinnovamento politico e di esaltante fermento intellettuale, che parve dar corpo all'ideale di un socialismo dal volto umano. A differenza del moto ungherese del '56, l'esperienza cecoslovacca del '68 fu sempre saldamente guidata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico. Ma essa costituì ugualmente una minaccia intollerabile per l'Urss, preoccupata dagli effetti di contagio che quel processo avrebbe potuto avere sugli altri Stati del blocco orientale.
I sovietici tentarono invano di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di liberalizzazione. Poi, il 21 agosto 1968, truppe dell'Urss e di altri quattro paesi del Patto di Varsavia (Germania Est, Polonia, Ungheria e Bulgaria) occuparono Praga e il resto del paese; Dubček fu arrestato e venne formato un governo filosovietico. I dirigenti cechi rinunciarono all'opposizione armata, ma promossero un'efficace resistenza passiva, che isolò politicamente e moralmente gli occupanti. In una fabbrica di Praga si tenne un congresso clandestino del Partito comunista che riaffermò la sua fiducia a Dubček.
Trovatisi in tal modo in una situazione imbarazzante, i sovietici costrinsero Dubček e gli altri dirigenti della "primavera di Praga" a riprendere il loro posto, ma sotto lo stretto controllo degli occupanti che, nel giro di pochi mesi, riuscirono a imporre un rovesciamento dei rapporti di forza nel partito. I dirigenti "liberali" furono progressivamente emarginati e, a partire dalla primavera '69, allontanati dai loro incarichi. Con la rimozione di Dubček, che fu sostituito da Gustáv Husák, cominciò la fase della "normalizzazione". Ne furono vittime i quadri comunisti e soprattutto gli intellettuali, che erano stati protagonisti del nuovo corso e che furono in gran parte costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale.
Con la repressione della "primavera di Praga", l'Unione Sovietica registrò un ulteriore appannamento della propria immagine. Questa volta a condannare l'intervento non furono singoli intellettuali, ma interi partiti comunisti occidentali (a cominciare da quello italiano); critiche severe vennero anche da partiti al potere, come quelli cinese, jugoslavo e rumeno. D'altra parte, come nel '56, l'Urss poteva riaffermare il suo controllo sull'Europa dell'Est senza pagare prezzi politici significativi nei rapporti con gli Stati Uniti, allora impegnati nella guerra del Vietnam, e senza interrompere il dialogo con l'Occidente. Restava però, insoluto e aggravato, il problema di un crescente disagio nei rapporti fra governi e governati nei paesi dell'Europa orientale. Un disagio che si manifestò chiaramente in Polonia nel dicembre 1970, quando gli operai di Danzica e Stettino, per protestare contro la politica di austerità e di aumento dei prezzi decisa da Gomulka, diedero vita a una vera e propria insurrezione. La crisi fu risolta con la concessione di aumenti salariali e con l'allontanamento di Gomulka, sostituito da Edward Gierek. Ma il cambio al vertice rappresentò una soluzione solo temporanea ai problemi economici e politici del paese, che si sarebbero puntualmente riproposti alla fine degli anni '70.
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