35.10 L'Urss da Breznev a Gorbačëv
Come abbiamo già avuto modo di accennare nel corso di questo capitolo, gli anni '70 e '80 hanno visto entrare progressivamente in crisi - per fattori diversi e talora di segno opposto - quel modello di gestione dell'economia e del potere politico nato con la rivoluzione russa, che si è soliti definire "comunismo", o, con un termine entrato in voga di recente, "socialismo reale", per distinguerlo dai molti altri socialismi teorizzati o sognati, ma mai pienamente attuati, nella storia degli ultimi due secoli (p. 92). Il fenomeno ha toccato in forma più o meno acuta tutti i regimi comunisti del mondo: dalla Cina, a Cuba al Vietnam all'"eretica" Jugoslavia (che dopo la morte di Tito - 1980 - è stata travagliata da un gravissimo dissesto economico e da acuti conflitti di nazionalità). Ma la crisi ha avuto e ha il suo epicentro in Unione Sovietica, per molti anni paese guida del "campo socialista" e al tempo stesso superpotenza mondiale in condominio con gli Stati Uniti.
Per tutti gli anni '70 - gli anni del potere incontrastato di
Leonid Breznev - l'Urss riuscì a mascherare i suoi gravi problemi interni con un accentuato dinamismo in politica internazionale. In questi anni lo Stato sovietico, pur essendo afflitto da notevoli difficoltà economiche, soprattutto nel settore agricolo (e costretto per questo a importare ingenti quantitativi di cereali dall'Occidente), profittò della relativa debolezza e delle incertezze di leadership degli Stati Uniti per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per allargare la sua sfera di influenza in tutti i continenti: dall'America Latina (Nicaragua) all'Africa (Etiopia, Angola, Mozambico), al Medio Oriente (nonostante lo scacco subito col passaggio dell'Egitto nel campo filo-occidentale,
35.4). Un successo effimero, e pagato a caro prezzo, fu quello ottenuto dall'Urss nel vicino Afghanistan, un tipico Stato cuscinetto situato nel cuore dell'Asia musulmana, in posizione chiave per il controllo dell'area del Golfo Persico. Per imporre nel paese, fin allora schierato su posizioni di non allineamento, un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono in Afghanistan, alla fine del '79, un forte contingente di truppe che si dovette scontrare, per quasi dieci anni, contro l'accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici (sostenuti dal Pakistan, dall'Iran e anche dagli Stati Uniti): un'esperienza amara che, per il suo altissimo costo in vite umane e per le sue ripercussioni psicologiche, è stata spesso paragonata all'intervento americano in Vietnam.
Alla stagnazione economica e al rinnovato dinamismo in politica estera faceva riscontro, nell'Urss dell'età brezneviana, un'accentuazione dei tratti burocratico-autoritari del regime interno. Si inasprì, in particolare, la repressione nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti dei quali in questo periodo furono condannati a pene detentive o internati in cliniche psichiatriche. Alcuni, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solženicyn, poterono emigrare in Occidente, da dove alimentarono una vivace polemica contro il regime comunista. Nel 1975 l'Urss partecipò, assieme ad altri 35 paesi, alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e ne sottoscrisse gli accordi finali che garantivano fra l'altro il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà politiche fondamentali. Il mancato rispetto di questi accordi avrebbe costituito negli anni successivi un ulteriore motivo di protesta da parte dei dissidenti e un serio ostacolo al dialogo con l'Occidente.
Una svolta radicale per l'Unione Sovietica e per l'intero mondo comunista ha avuto luogo a partire dalla metà degli anni '80. Nel 1985, dopo la morte di Breznev (1982) e dopo un breve interregno che vide salire alla guida del partito e dello Stato gli anziani Yuri Andropov e Kostantin Cernienko - entrambi deceduti per malattia poco dopo la loro ascesa al vertice - la segreteria del Pcus fu assunta da
Michail Gorbačëv. Più giovane (54 anni) e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbačëv si è subito mostrato deciso a introdurre una serie di radicali novità nel corso della politica sovietica, sia sul piano interno sia su quello internazionale.
In politica economica, il nuovo segretario ha legato il suo nome alla parola d'ordine della perestrojka (ossia "riforma"), proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione, volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Sul terreno delle istituzioni, Gorbačëv si è fatto promotore, nel 1988, di una nuova costituzione che, senza intaccare il sistema del partito unico, ha lasciato spazio a un limitato pluralismo, distinguendo più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito (comunque unite al vertice nella persona del segretario-presidente). Le elezioni del congresso dei Soviet tenutesi nell'89 hanno introdotto un sistema di candidature plurime (ma sempre su lista unica) e consentito l'ingresso nel massimo organo rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso: fra questi il fisico Andreij Sacharov, già perseguitato nel periodo brezneviano. Nel marzo '90, il congresso ha eletto a larghissima maggioranza Gorbačëv presidente dell'Urss.
Riforme economiche e liberalizzazione interna, se da un lato hanno indubbiamente giovato all'immagine dell'Urss, dall'altro hanno evidenziato e acutizzato alcune contraddizioni che erano rimaste fin allora come soffocate nella stagnazione dell'età di Breznev. I tentativi di riforma dell'economia, innestandosi su una realtà poco preparata ad accoglierli (perché ormai disassuefatta alla logica della competizione e dell'efficienza), hanno finito col suscitare non pochi malumori e con l'accentuare il dissesto di un sistema tradizionalmente inefficiente. L'apertura di nuovi spazi di dibattito politico ha messo in moto tensioni non facilmente controllabili.
Particolarmente allarmante era l'emergere di movimenti autonomisti o addirittura indipendentisti fra le popolazioni non russe già facenti parte dell'Impero degli zar e poi inglobate, spesso con mezzi coercitivi, entro i confini dell'Unione (
22.7). Le prime a muoversi sono state le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) annesse all'Unione Sovietica in seguito al patto russo-tedesco dell'agosto '39 (
29.1). Ma movimenti analoghi sono emersi anche nelle repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e nelle regioni musulmane dell'Asia centrale. In qualche caso la tensione è esplosa in sanguinosi scontri interetnici: particolarmente gravi quelli che, nel febbraio '88, hanno opposto i cattolici armeni ai musulmani azeri (abitanti dell'Azerbaigian). Nel 1990, la stessa repubblica russa (la più grande e la più popolosa dell'Unione, guida e centro motore dell'intero sistema sovietico) ha rivendicato la propria autonomia dal potere federale e ha eletto alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin.
Ancora più importante delle riforme - che per lo più si sono dimostrate inadeguate e sono state regolarmente scavalcate dall'incalzare della crisi dell'intero sistema - è stato l'avvio di un processo di liberalizzazione interna condotto all'insegna della glasnost ("pubblicità", "trasparenza", in un senso più lato "libertà d'espressione"): un processo che ha consentito lo svilupparsi di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima.
Conseguenza - e insieme presupposto - delle aperture riformiste all'interno è stato il rilancio del dialogo con l'Occidente, rimasto pressoché congelato negli anni precedenti: un rilancio imposto anche dall'incapacità del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata dall'America di Reagan e dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali.
La disponibilità al negoziato di Gorbačëv ha trovato un interlocutore interessato in un Reagan desideroso di concludere in bellezza il suo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo che l'ostentazione di forza di cui era stato protagonista (soprattutto in materia di armamenti) non portava necessariamente allo scontro, ma al contrario poteva costituire la miglior base per una nuova trattativa globale con l'Urss. Due successivi incontri fra Reagan e Gorbačëv (Ginevra, novembre '85 e Reykjavik, ottobre '86), pur non avendo raggiunto risultati conclusivi, hanno segnato la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurato un clima più disteso nei rapporti Usa-Urss. Un terzo vertice (Washington, dicembre '87) ha portato a uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in Europa: un accordo che, al di là della sua limitata portata pratica, ha avuto un alto valore simbolico, perché per la prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari. Pochi mesi dopo (aprile '88), l'Urss si è impegnata a ritirare le sue truppe dall'Afghanistan: ritiro che è stato effettivamente ultimato nel gennaio '89. Nel nuovo clima determinato dai rivolgimenti politici dell'Europa orientale, nuovi incontri al vertice fra Gorbačëv e Bush (Malta, dicembre '89 e Washington, giugno '90) hanno consentito di porre la basi per ulteriori accordi sulla riduzione degli armamenti strategici.
La rinnovata collaborazione fra le due superpotenze ha fatto nascere molte speranze sulle prospettive di un nuovo ordine internazionale basato non soltanto sull'"equilibrio del terrore". Il nuovo ordine ha avuto già un inizio di attuazione in Europa, quando a Parigi, nel novembre 1990, nell'ambito di una nuova riunione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (la seconda dopo quella di Helsinki del '75), i paesi della Nato e del Patto di Varsavia, con la significativa partecipazione della Germania riunificata (
35.11), hanno firmato un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. Ma anche nel resto del mondo la nuova distensione ha contribuito a un inizio di soluzione di alcuni conflitti locali (dalla guerra Iraq-Iran al conflitto fra Vietnam e Cambogia, dalle guerre civili dell'America Latina ai contrasti razziali in Sud Africa) e ha conferito maggiore efficacia alla stessa azione dell'Onu, non più paralizzata dal gioco dei veti incrociati.
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