35.11 La crisi dell'Europa comunista e la riunificazione tedesca
Indipendentemente dai suoi effetti sull'evoluzione interna dell'Urss, la crisi del comunismo sovietico ha prodotto un risultato di eccezionale e irreversibile portata storica: il crollo dei regimi comunisti imposti all'Europa dell'Est dopo il secondo conflitto mondiale e la conseguente perdita da parte dell'Unione Sovietica di quel dominio di fatto che era stato mantenuto con tutti i mezzi per oltre un quarantennio. Come nel '56, i mutamenti in atto nell'Urss si sono immediatamente ripercossi nei paesi satelliti (soprattutto in Polonia e in Ungheria). Ma, contrariamente a quanto era accaduto allora, i processi riformatori sono stati favoriti, almeno all'inizio dall'atteggiamento della dirigenza sovietica, decisa a non ripercorrere le orme di Kruscёv e di Breznev.
La Polonia - che fra tutti i paesi comunisti dell'Est era sempre stato il più refrattario all'imposizione del modello comunista - aveva già conosciuto una inattesa stagione di cambiamenti fra l'80 e l'81, quando era sorto spontaneamente e si era rapidamente affermato un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc ("solidarietà"), appoggiato e ispirato dal clero cattolico e guidato da un leader diventato subito popolarissimo, l'operaio Lech Walesa. Il movimento, protagonista di una serie di imponenti scioperi, era stato in un primo tempo tollerato dalle autorità. Ma, nel dicembre 1981, per bloccare un processo dagli esiti imprevedibili - e forse per prevenire un minacciato intervento sovietico - il generale Jaruzelski, già segretario del Partito operaio polacco (l'equivalente del Partito comunista), aveva attuato un vero e proprio colpo di stato militare, assumendo i pieni poteri e mettendo fuori legge Solidarnosc. In seguito, tuttavia, lo stesso Jaruzelski aveva allentato le misure repressive e aveva riallacciato il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente. Dialogo poi culminato, in epoca gorbaceviana, negli accordi di Danzica del 1988, con i quali il capo dello Stato si è impegnato a una riforma costituzionale che, pur assicurando ai comunisti la maggioranza di una delle due assemblee legislative, ha consentito lo svolgimento, nel giugno '89, delle prime libere elezioni in un paese del blocco comunista (elezioni stravinte dai condidati di Solidarnosc) e la formazione di un governo di coalizione (con i comunisti agli Interni e alla Difesa) presieduto da un esponente del sindacato indipendente, l'economista cattolico Tadeusz Mazowiecki.
Gli avvenimenti polacchi sono stati in parte il prodotto di fattori specifici (in primo luogo la grande influenza di un clero cattolico reso più forte e più autorevole dall'ascesa di Karol Wojtyla al soglio pontificio). Ma sono stati anche una conseguenza diretta del nuovo corso della politica sovietica e hanno rappresentato l'inizio di una sorta di reazione a catena che, nel giro di pochi mesi, fra l'89 e il '90, ha rovesciato gli equilibri politici e strategici di tutta l'Europa dell'Est.
Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme interne è stato l'Ungheria, dove, all'inizio dell'89, era stato deposto il vecchio Kadar (protagonista della repressione del '56, ma anche del successivo trentennio di relativo benessere e di graduale liberalizzazione). I nuovi dirigenti comunisti, decisi a spingere il processo riformatore fino alle sue ultime conseguenze, hanno solennemente riabilitato i protagonisti della rivolta del '56 (
30.11), hanno legalizzato i partiti e indetto libere elezioni per l'anno successivo.
Ma la decisione più importante e più gravida di conseguenze fra quelle assunte dai nuovi dirigenti ungheresi è stata la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l'Austria: decisione che ha aperto la prima vera breccia nella cortina di ferro e ha innescato una serie di reazioni in tutto il mondo comunista. A partire dall'estate '89, decine di migliaia di cittadini della Germania orientale hanno abbandonato il loro paese per raggiungere la Repubblica federale tedesca, per lo più attraverso l'Ungheria e l'Austria. La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni di protesta nelle principali città tedesco-orientali, ha messo in crisi il regime comunista, costringendo alle dimissioni il vecchio segretario del partito Erich Honecker. I nuovi dirigenti, con l'autorevole avallo di Gorbačëv, hanno avviato un processo di riforme interne e hanno quindi liberalizzato la concessione dei visti d'uscita e dei permessi d'espatrio. Il 9 novembre 1989, sono stati aperti i confini fra le due Germanie, compresi i passaggi attraverso il muro di Berlino, simbolo della guerra fredda; e grandi masse di cittadini tedesco-orientali si sono recate in visita all'Ovest in un'atmosfera di festa e di riconciliazione che ha implicitamente rilanciato il tema dell'unità tedesca.
Gli avvenimenti tedeschi hanno accelerato ulteriormente il ritmo delle trasformazioni nell'Europa dell'Est. In Cecoslovacchia una serie di imponenti manifestazioni popolari (che hanno visto tornare sulla scena Aleksander Dubček e gli altri protagonisti della "primavera di Praga") hanno determinato la caduta del gruppo dirigente comunista legato alla 'normalizzazione' del dopo-'68 e l'apertura di un processo di democratizzazione. In dicembre il Parlamento, presieduto da Dubček, ha eletto alla presidenza della Repubblica lo scrittore Vaclav Havel, già perseguitato dal regime comunista.
In Romania il mutamento di regime, che negli altri paesi si è svolto in forme pacifiche, ha avuto sviluppi drammatici per la resistenza opposta dalla dittatura personale di Nicolae Ceausescu, abbattuta nel dicembre '89 da un'insurrezione popolare dopo un sanguinoso tentativo di repressione. Ceausescu è stato catturato e messo a morte insieme alla moglie Elena. Alla fine dell'89, anche in Bulgaria è stato avviato un graduale processo di liberalizzazione. Un anno dopo, il vento delle riforme ha toccato persino l'Albania, ultima roccaforte dell'ortodossia marxista-leninista in Europa.
Se in Romania e in Albania i leader "neocomunisti" sono riusciti a mantenere il controllo del processo riformatore, nonostante le forti proteste di cui sono stati fatti segno da parte dell'opposizione, soprattutto studentesca (in Romania, ad esempio, la contestazione al regime del presidente Ion Iliescu, vincitore delle elezioni del maggio '90, è sfociata in episodi da guerra civile), negli altri paesi dell'ex blocco dell'Est la democratizzazione ha finito col travolgere quegli stessi gruppi dirigenti che l'avevano avviata e che avevano cercato di adeguarvisi, fino al punto da cambiare la denominazione dei loro partiti (da cui è ovunque scomparso l'aggettivo "comunista").
In Ungheria le prime elezioni libere (aprile-maggio 1990) hanno segnato l'affermazione di un partito di centro-destra, il Forum democratico, e la quasi scomparsa degli ex comunisti (ribattezzatisi socialdemocratici). In Cecoslovacchia, nelle elezioni di giugno, la vittoria è andata a una formazione di centro-sinistra, il Forum civico del presidente Havel. In Polonia, usciti di scena i comunisti, le elezioni presidenziali del novembre-dicembre '90 hanno visto la divisione del movimento di Solidarnosc, che ha comunque portato alla guida dello Stato il suo leader storico Walesa. Un discorso a parte va fatto per la Jugoslavia, dove l'esito delle prime elezioni libere, che si sono tenute nel corso del '90, ha accentuato le spinte centrifughe già operanti all'interno dello Stato federativo: mentre infatti le più sviluppate repubbliche di Slovenia e Croazia hanno dato la vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia si è affermato il neocomunismo nazionalista di Slobodan Milosevic, deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita.
Le conseguenze più clamorose del crollo dei regimi comunisti si sono avute però nella Germania dell'Est, dove le elezioni del marzo 1990 hanno punito non solo gli ex comunisti, ma anche i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra, mostratisi troppo timidi di fronte alla prospettiva di un'immediata unificazione tedesca nel segno dell'economia di mercato e del "consumismo". La vittoria è andata così ai cristiano-democratici che, in pieno accordo coi loro omologhi dell'Ovest, hanno accelerato i tempi per la liquidazione di una entità statuale, la Repubblica democratica tedesca, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica. In questa situazione si è inserita con grande efficacia l'azione del governo Kohl-Genscher, che è riuscito a preparare in pochi mesi l'assorbimento della Germania orientale nelle strutture istituzionali ed economiche della Repubblica federale tedesca e a fare accettare anche all'Urss e ai paesi dell'Est europeo la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell'Alleanza atlantica. In maggio i due governi hanno firmato un trattato per l'unificazione economica e monetaria. Il 3 ottobre, dopo che il leader sovietico Gorbačëv aveva dato il suo assenso alla riunificazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi circa l'inviolabilità delle frontiere uscite dal secondo conflitto mondiale, è entrato in vigore il vero e proprio trattato di unificazione; e la Germania è tornata a essere, dopo oltre un quarantennio di divisione, uno Stato unitario: il più forte e il più dinamico, dal punto di vista economico, dell'intero continente europeo.
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