35.13 I problemi del postcomunismo: la fine dell'Urss e i nuovi equilibri mondiali
Se gli anni '80 si erano chiusi per l'Urss e per l'Europa orientale sotto il segno delle riforme, della democratizzazione e delle speranze di benessere, l'inizio del nuovo decennio ha evidenziato soprattutto la gravità dei problemi cui devono far fronte le società uscite dall'esperienza comunista. Ovunque il passaggio all'economia di mercato si è rivelato un processo lungo e costellato di disagi immediati (fenomeni speculativi, crescita dei prezzi, disoccupazione). Nella ex Germania orientale le difficoltà dell'unificazione economica con l'Ovest hanno favorito una preoccupante apparizione di gruppi giovanili xenofobi a tinta neonazista. In Polonia le elezioni dell'ottobre '91 hanno registrato una esasperata frammentazione politica, tale da rendere problematica la formazione di una maggioranza. In Cecoslovacchia si sono sviluppate tendenze separatiste nella minoranza slovacca; e tensioni etniche si sono manifestate anche in Romania e in Bulgaria.
In Jugoslavia, poi, la crisi del regime a partito unico (iniziata già con la morte di Tito) ha fatto saltare i precari equilibri fra le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale e ha portato addirittura allo scontro armato e alla disgregazione dello Stato federale. La crisi è precipitata in seguito al contrasto fra le risorgenti aspirazioni egemoniche della Serbia di Milosevic (
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Una situazione analoga - ma su scala molto più ampia - è quella che rischia di prodursi in Unione Sovietica. Abbiamo già visto come anche qui la crisi del regime comunista avesse prodotto una serie di spinte centrifughe, giunte, nel caso delle repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania), alla rivendicazione della completa indipendenza. La crisi si è acutizzata fra il '90 e il '91, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione economica. Gorbačëv ha cercato di reagire mediando fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell'ala dura del partito e delle forze armate, e alternando le concessioni agli interventi repressivi.
Questo fragile equilibrio si è rotto nell'agosto 1991, quando un gruppo di esponenti del partito, del governo e delle forze armate ha tentato la carta del colpo di Stato, esautorando lo stesso presidente, sequestrato nella sua casa di vacanza in Crimea. I congiurati contavano di sfruttare il malcontento diffuso fra la popolazione e forse speravano, oltre che nel pieno appoggio delle forze armate, anche in un avallo di Gorbačëv. Ma tutti i calcoli si rivelarono errati e il golpe, evidentemente organizzato senza adeguata preparazione, fallì clamorosamente di fronte a un'inattesa protesta popolare e al mancato sostegno dell'esercito: a Mosca, fra il 19 e il 20 agosto, una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un'ingloriosa ritirata. Decisivo fu in questa occasione il ruolo del presidente della repubblica russa
Eltsin, che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e aver imposto la liberazione di Gorbačëv, si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente sovietico.
Il fallimento del golpe di agosto, se da un lato è valso a spazzare via quanto restava del potere comunista (il Pcus, un tempo onnipotente, ha visto sospese le sue attività e requisiti i suoi averi), dall'altro ha ulteriormente accelerato la crisi dell'autorità centrale. La riforma economica non è riuscita a decollare, mentre il sistema degli scambi all'interno dell'Unione è entrato in crisi aggravando i problemi di distribuzione delle merci (e soprattutto delle derrate alimentari). Il pluralismo politico non si è tradotto in vera democratizzazione (e ha lasciato spazio anche all'emergere di tendenze autoritarie e tradizionaliste). Le spinte separatiste si sono accentuate, fino a provocare la distruzione dell'Urss. Dopo le tre repubbliche baltiche - la cui indipendenza era ormai fuori discussione - anche la Georgia, l'Armenia e la Moldavia (strappata alla Romania dopo il secondo conflitto mondiale) hanno proclamato unilateralmente la loro secessione dall'Unione Sovietica; e lo stesso ha fatto l'Ucraina, legata alla Russia da antichi vincoli storico-culturali, oltre che da stretti rapporti di interdipendenza economica. Gorbačëv ha tentato di bloccare questo processo proponendo un nuovo trattato di unione, meno rigido del precedente, ma tale da assicurare l'esistenza dell'Urss come Stato, come entità militare e come soggetto di politica internazionale. Ma la sua iniziativa è stata scavalcata da quella dei presidenti delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si sono accordati sull'ipotesi di una comunità di Stati sovrani, e su questa ipotesi hanno ottenuto il consenso delle altre repubbliche ex sovietiche (comprese quelle asiatiche a maggioranza musulmana, ma esclusi gli Stati baltici, ormai decisi a un distacco totale, ed esclusa la Georgia, lacerata da una guerra civile). Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici repubbliche (sulle quindici già facenti parte dell'Urss, p. 851) hanno dato vita alla nuova
Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e sancito la morte dell'Unione Sovietica, decretando implicitamente anche la fine politica del suo presidente. Il 25 dicembre, Gorbačëv ha tratto le logiche conseguenze da quanto era accaduto e ha annunciato in un discorso televisivo le sue dimissioni. Il giorno stesso, la bandiera sovietica è stata ammainata dal Cremlino e sostituita da quella russa.
Salutata in buona parte del mondo come un evento liberatorio, la dissoluzione del grande "impero" sovietico ha suscitato tuttavia non pochi interrogativi e motivi di inquietudine. La situazione economica, già drammatica, dei paesi dell'ex Urss si è ulteriormente aggravata; e l'assenza di un'autorità centrale ha reso più problematico il coordinamento degli aiuti inviati dall'Occidente (soprattutto dalla Germania riunificata). Ma le preoccupazioni maggiori riguardano gli aspetti militari, in particolare il destino dell'immenso arsenale nucleare sovietico, dislocato anche fuori dai confini della repubblica russa. Il tentativo della Russia di presentarsi come unica erede legittima del ruolo di grande potenza già svolto dall'Urss è riuscito solo in parte, anche a causa dello stato di crisi economica in cui versa la maggiore delle repubbliche ex sovietiche. L'Ucraina, in particolare, ha contestato quel ruolo, creando un esercito nazionale e rivendicando il controllo sulla flotta del Mar Nero.
Queste dispute non hanno fortunatamente bloccato la tendenza, già iniziata in epoca gorbaceviana, alla riduzione degli armamenti nucleari. Gli Stati Uniti - che in un primo tempo avevano cercato di sostenere politicamente il presidente sovietico, considerato il partner più affidabile - hanno poi cercato il dialogo con la Russia di Eltsin (cui è stato riconosciuto il diritto di occupare il seggio dell'Urss in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu), proponendo nuovi consistenti tagli agli armamenti tattici e strategici. E dalla Russia sono giunte risposte incoraggianti. Restano le incognite suscitate dalla fine improvvisa di un equilibrio internazionale bipolare che aveva retto i destini del mondo per quasi mezzo secolo. Oggi gli Stati Uniti - come è stato dimostrato anche dalle vicende della guerra del Golfo - appaiono come l'unica vera superpotenza mondiale. Altre potenze si affacciano sulla scena internazionale, in virtù della loro forza economica (Giappone, Germania) o del loro peso demografico (Cina, India). L'incubo di un conflitto generale sembra ormai allontanato; e l'organizzazione delle Nazioni Unite ha acquistato nuova credibilità. Ma un nuovo equilibrio globale di tipo pluralistico è ancora tutto da costruire.
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