36.8 I problemi dell'Italia di oggi
Apertosi, sul piano internazionale, con una serie di grandiosi mutamenti, l'ultimo decennio del secolo è iniziato, anche per l'Italia, all'insegna di alcune rilevanti novità politiche, accompagnate però da un complessivo aggravarsi dei sintomi di disagio nella società civile e nelle istituzioni. Nodi antichi e problemi nuovi (come quello dell'immigrazione clandestina dal Terzo mondo e dall'Europa dell'Est, che ha suscitato inquietanti reazioni di intolleranza e a cui si è cercato di dare regolamentazione con la legge Martelli del 1990) sono venuti contemporaneamente alla ribalta, sottoponendo il sistema politico a una serie di sollecitazioni cui non sempre la classe dirigente ha saputo reagire con efficacia.
Segnali negativi sono venuti innanzitutto dall'economia: la crescita produttiva, che nel decennio precedente era servita a mascherare molti problemi, si è interrotta a partire dal 1990. Molte imprese italiane, a cominciare dalle maggiori come Fiat e Olivetti, hanno perso competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate (in termini di oneri previdenziali e di inadeguatezza delle infrastrutture) dall'inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l'inflazione, alimentata dalla crescita della spesa pubblica, resta ben al disopra della media europea e mentre il deficit del bilancio statale, ormai assorbito in gran parte dagli oneri degli interessi sul debito pubblico, non accenna a ridursi: il che costringe lo Stato a continue emissioni di titoli (Buoni del Tesoro, Certificati di credito, ecc.) che attirano il risparmio, distogliendolo dagli impieghi produttivi.
I problemi dell'economia e della finanza pubblica non sono il solo motivo per cui l'Italia rischia di restare emarginata dal processo di integrazione europea. Un motivo ancora più grave è rappresentato dall'accresciuta offensiva della criminalità organizzata in Sicilia, in Calabria e in Campania e, negli ultimi tempi (anche se in minor misura), in Puglia. In queste regioni - dove nel '91 sono stati commessi quasi i tre quarti dei reati di sangue consumati in tutto il paese - le organizzazioni criminali, sostenute da una diffusa rete di complicità, hanno spesso finito con l'esercitare un autentico controllo sul territorio, inquinando il mondo politico locale, taglieggiando le attività produttive e bloccando lo sviluppo di un'economia non parassitaria. Un'offensiva cui i poteri dello Stato non hanno sinora saputo opporre una risposta adeguata.
Sul piano della vita politica, le novità di questo inizio di decennio sono state numerose e rilevanti, ma non tali da delineare una compiuta alternativa al quadro attuale. La novità più importante, direttamente legata ai mutamenti in corso nell'Urss e nell'Europa dell'Est, è certamente la trasformazione del Pci nel nuovo
Partito democratico della sinistra (Pds). La clamorosa decisione - annunciata alla fine dell'89 dal segretario Achille Occhetto e tradotta in atto, dopo lunghe polemiche interne, in un congresso tenutosi a Rimini nel febbraio '91 - avrebbe dovuto "sbloccare" la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Ma questo progetto si è finora scontrato con le diffidenze reciproche che permangono fra i due maggiori partiti della sinistra (l'uno al governo, l'altro all'opposizione); e il nuovo Pds, diviso al suo interno e abbandonato dall'ala più legata all'eredità del vecchio Pci (che ha dato vita al movimento di Rifondazione comunista), non è riuscito a imporsi come punto di riferimento e di raccolta per un'opinione pubblica di sinistra attraversata da una forte crisi di identità.
Sull'opposto versante politico, la crescita, nel settentrione, dei movimenti regionalisti - in particolare della Lega lombarda, affermatasi in alcune recenti consultazioni amministrative sull'onda di una violenta polemica "nordista" contro lo Stato centralizzatore, il fisco e l'intero sistema dei partiti - rappresenta una concreta minaccia per gli equilibri politici locali e nazionali, ma non configura un'organica alternativa di governo. Più in generale, la proliferazione di nuovi piccoli movimenti, spesso concentrati su problemi specifici, rischia, in assenza di una riforma elettorale, di esasperare la frammentazione dello schieramento parlamentare e di aggravare i fenomeni di ingovernabilità.
Anche per questo, quasi tutte le forze politiche concordano sulla necessità di una riforma elettorale che dia maggiore stabilità all'esecutivo, o addirittura di un ritocco delle istituzioni parlamentari previste dalla costituzione. L'accordo però viene meno quando si passa alle proposte concrete. Democristiani ed ex comunisti sono favorevoli a una riforma elettorale (attuabile con legge ordinaria) che spinga i partiti ad aggregarsi prima del voto e premi la coalizione vincente. I socialisti e altre forze politiche minori premono invece per una riforma costituzionale incentrata sull'elezione diretta del capo dello Stato. Questi contrasti - causa di ulteriore discordia all'interno della maggioranza governativa - hanno finora bloccato ogni concreta ipotesi di riforma.
A tenere aperto il problema ha però contribuito, nel giugno '91, lo schiacciante successo di un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato composto da esponenti di diversi partiti e presieduto dal democristiano Mario Segni: un risultato importante non tanto per il suo contenuto specifico (la riduzione ad una del numero delle preferenze), quanto per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un'altra inattesa sollecitazione in direzione delle riforme giunse addirittura dal vertice dello Stato: il presidente della Repubblica Cossiga, mutando improvvisamente lo stile di comportamento seguito nei primi cinque anni del suo mandato, si rese protagonista di una serie di accese polemiche, sia con singole forze politiche (compreso il suo partito di provenienza), sia con altri organi dello Stato (in particolare il Consiglio superiore della magistratura, accusato di arrogarsi poteri non suoi); e dichiarò apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui lui stesso era il più alto rappresentante. Le "esternazioni" di Cossiga evidenziarono ulteriormente la crisi istituzionale di cui da tempo soffriva il paese: la "prima repubblica", fondata sul sistema dei partiti, appariva sempre più debole e inadeguata ai tempi, ma la seconda stentava ancora a vedere la luce.
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